I negozianti non pagano più il pizzo, gli incontri di calcio terminano regolarmente senza che dagli spalti partano colpi d’arma da fuoco, si può passare da un quartiere all’altro della capitale, ora non più presidiati, per prendere parte a compleanni e matrimoni.Da ogni parte del mondo, arrivano giornalisti a verificare e osannare la “storia di successo” del momento: il “modello Bukele”, con cui il presidente di El Salvador ha stroncato la violenza delle bande criminali. Di quel “modello”, che rischia di essere imitato altrove, è ricorso in questi giorni il primo anniversario: il 27 marzo 2022, dopo 87 omicidi in 48 ore, Nayib Bukele ha proclamato lo stato d’emergenza. Non era più il momento di negoziare meno omicidi in cambio di benefici ai capi delle gang. Era il momento di sopprimerle.

Per un anno, sono state sospese garanzie procedurali come la presunzione d’innocenza e il diritto alla difesa, il che ha dato luogo all’imprigionamento di oltre 66mila persone in tempi record, anche sulla base di accuse anonime, di precedenti penali o persino di “prove” come un tatuaggio.Le udienze si sono svolte in modo sommario, per lo più da remoto, con un giudice anonimo in grado di processare contemporaneamente fino a 500 persone e condannarle senza alcuna prova che avessero commesso reati.

Morti di stato

Il numero delle persone morte nelle mani dello stato è arrivato a 132. Le organizzazioni salvadoregne per i diritti umani temono, tuttavia, che sia molto più alto, dato che si segnalano nuovi casi di riesumazione dalle fosse comuni di persone di cui si erano perse notizie mesi fa, dopo l’arresto.

Nella maggior parte dei casi, quelle morti sono state causate da torture e trattamenti crudeli e degradanti da parte di agenti di polizia e di guardie penitenziarie o dal diniego di cure mediche. Alcuni detenuti scarcerati con messa alla prova hanno dichiarato di aver assistito a pestaggi mortali nei confronti di compagni di prigionia, allo scopo di estorcere confessioni o semplicemente per punirli. L’Istituto di medicina legale e gli ospedali dove le vittime erano ricoverate prima di morire hanno emesso certificati di decesso per « asfissia meccanica», «traumi multipli» e «percosse». A oggi, nessun familiare è stato informato su eventuali indagini aperte per accertare le cause di queste morti.

Uno su cento in carcere

Tra i provvedimenti che hanno accompagnato lo stato d’emergenza, un emendamento al codice di procedura penale ha autorizzato l’uso indiscriminato della detenzione preventiva. Ne è derivato un enorme problema di sovraffollamento delle prigioni: celle con oltre 100 detenuti, assenza di servizi igienici, mancanza di acqua, cibo, medicinali e cure, diffusione di malattie. Attualmente, con oltre 100mila detenuti, circa l’1,5 per cento della popolazione del paese, El Salvador ha il più alto livello di incarcerazione al mondo.

Lo stato d’emergenza sta avendo un impatto sproporzionato sulle persone che vivono in povertà nelle zone più marginalizzate del paese e, dunque, storicamente più esposte alla violenza delle bande criminali. Migliaia di famiglie sono state gravemente colpite dal punto di vista economico perché il principale, se non l’unico, percettore di reddito era finito in carcere e a causa delle spese sostenute per dimostrarne, quasi sempre invano, l’innocenza e garantire la sua alimentazione e la sua salute in carcere. Ne sono derivati l’aumento dell’abbandono scolastico e del lavoro minorile, nuovi sfollamenti forzati e maggiori oneri e responsabilità per le donne.

Il “modello Bukele” è la versione estrema del paradigma “meno diritti, più sicurezza”. Attrae consenso, perché cambia gli attori e i luoghi, non più visibili, della violenza: da quella delle bande criminali in strada a quella dello stato nelle carceri. Funzionerà? Nel breve periodo forse sì. Almeno fino a quando decine di migliaia di persone arrestate in enormi pesche a strascico non torneranno libere, ancora più incattivite. O fino a quando il ristoratore che non paga più il pizzo non verrà a sua volta arrestato, magari per un tatuaggio.

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