«Se vado a Tarhuna, uccideranno anche me, me l’hanno detto». Abdul Hakim Amer Abu Naama vive a Tripoli ma la sua famiglia di abita a Tarhuna, una piccola cittadina agricola a circa 90 chilometri dalla capitale libica. Il fratello di Hakim, Abu Bakr Amer Abu Naama, è scomparso proprio lì il 14 novembre 2019 in circostanze tutt’altro che misteriose. Hakim e la sua famiglia sanno bene chi sono i responsabili. «Alle 6 del mattino ha squillato il telefono. Ho risposto ed era mio fratello minore che, in maniera concitata, mi ha detto che Abu Bakr non era tornato a casa e non riuscivano a rintracciarlo. Ho subito pensato al peggio», dice Hakim. «La sera prima era andato da un amico e non ha fatto più ritorno a casa».

Abu Bakr Amer Abu Nama ha 37 anni, vive a Tarhuna, è sposato, ha due figli e risulta ancora scomparso. «Appena ho saputo della sua sparizione, ho cominciato a chiamarlo compulsivamente al telefono – racconta Hakim –. Dopo molte chiamate, però, qualcuno finalmente mi ha risposto e non era mio fratello». Il sospetto che sia stato fatto sparire diventa quasi subito una certezza. «La chiamata è durata pochissimo. Ho chiesto di parlare con mio fratello e chi stava dall’altra parte, sghignazzando, mi ha chiuso il telefono in faccia. Ho capito subito che Abu Bakr era stato rapito e che erano stati loro. Agiscono così».

Il clan

Le persone alle quali Hakim si riferisce sono membri della famiglia Al-Kani, che hanno formato il clan noto come Kaniyat, una milizia vicina al generale Khalifa Haftar che ha esercitato il controllo sulla città libica di Tarhuna fra il 2015 e il giugno 2020. Tre dei sette fratelli Al-Kani sono morti mentre gli altri sono stati costretti a fuggire dalle forze fedeli al precedente governo riconosciuto dalle Nazioni Unite. Nonostante questo ancora oggi molti residenti di Tarhuna hanno paura di parlarne.

Due giorni fa il Consiglio dell’Unione europea ha sanzionato i fratelli Mohammed e Abdelrahim Al-Kani, due figure di vertice della milizia Kaniyat, per le torture, le sparizioni forzate e le uccisioni extragiudiziali commesse proprio a Tarhuna in quel periodo. Questi provvedimenti, che includono il congelamento dei beni e il divieto di transito all’interno dell’Unione europea, rientrano nell’ambito di una serie di misure che l’Europa ha preso nei confronti di undici persone e quattro entità (fra cui i vertici militari responsabili del colpo di stato in Myanmar dello scorso febbraio e funzionari del governo dello Xinjiang) che «devono essere incluse nell’elenco di persone fisiche o giuridiche, entità o organismi soggetti a misure restrittive per le gravi violazioni dei diritti umani e gli abusi in diverse parti del mondo».

Per l’Europa, quindi, gli esponenti di spicco della milizia Kaniyat sono responsabili della morte di centinaia di civili, fra cui moltissime donne e bambini, come testimoniato dal ritrovamento di 27 fosse comuni a Tarhuna e dalla sparizione di almeno 338 cittadini libici avvenuta proprio fra il 2015 e il 2020. Fra loro c’è anche il fratello di Hakim. «A distanza di tre anni non sappiamo ancora che fine abbia fatto Abu Bakr e noi ci sentiamo sempre in pericolo. Io non posso tornare a Tarhuna perché mi hanno minacciato di morte».

Un problema irrisolto

Hakim è riuscito a entrare in contatto con Mohammed Al-Kani attraverso Facebook. «Gli ho scritto. Gli ho chiesto di dirmi dov’era mio fratello e lui mi ha risposto che se non l’avessi piantata mi avrebbero fatto fare la sua stessa fine. Sono dei criminali». Le sparizioni forzate e le uccisioni arbitrarie da parte del clan Kaniyat in Libia sono all’ordine del giorno, al punto che lo scorso dicembre, a seguito del ritrovamento dell’ennesima fossa comune, la popolazione locale, esasperata, è scesa in strada e ha cominciato a prendere a sassate le abitazioni dei membri della milizia. Il problema del disarmo dei miliziani in Libia rimane ancora irrisolto, eppure sarebbe la prima cosa da fare per uscire dal caos e ricostruire il paese. Solo una settimana fa, il nuovo governo di unità nazionale presieduto dall’imprenditore misuratino Abdul Hamid Dbeibeh, ha giurato a Tobruk.

Nonostante l’accordo raggiunto tra le parti dopo mesi di trattative, la situazione della sicurezza sul territorio rimane precaria. L’esecutivo creato sotto l’egida dell’Onu e degli attori internazionali che direttamente e indirettamente sono intervenuti nel conflitto fra Tripoli e Bengasi, non ha ancora preso il controllo di tutte le istituzioni, né delle carceri, sia a est che a ovest. Pochi giorni fa fonti di Libya Observer hanno riportato la notizia del ritrovamento di 11 corpi, alcuni dei quali ammanettati, abbandonati per strada dietro a una fabbrica di cemento nel quartiere di Hawari, a Bengasi. Il decesso di queste persone risalirebbe a più di dieci giorni fa, quando ancora il tentativo di arrivare a una mediazione politica era in fase di svolgimento e quindi il nuovo governo non era in carica.

In Libia operano centinaia di milizie, schegge impazzite che possono vanificare il lavoro diplomatico di mesi in poco tempo, mosse dalla sete di potere e denaro. La milizia Kaniyat dei fratelli Al-Kani è una di queste. «La famiglia Al-Kani è una mafia crudele e organizzata che tiene sotto scacco la gente e se non assecondi le sue richieste, sei automaticamente un nemico da fare fuori come è capitato a noi – racconta Hakim – Ci siamo opposti, non abbiamo permesso che uccidessero delle persone innocenti e li abbiamo denunciati alle autorità. Così siamo diventati loro nemici. Ecco perché ho pensato fin da subito che a mio fratello fosse capitato qualcosa di brutto».

La scelta dell’Ue di sanzionare i membri della milizia Kaniyat è un passo importante per lo meno dal punto di vista simbolico. «Sono contento che l’Unione europea abbia riconosciuto ufficialmente i responsabili di queste gravi violazioni dei diritti umani e li abbia sanzionati – dice Hakim – ma chiediamo giustizia per i crimini che hanno commesso e vogliamo la verità. Ogni giorno io e la mia famiglia controlliamo gli elenchi delle persone ritrovate in quelle fosse, e ogni giorno speriamo di non vedere il nome di mio fratello». Ieri sono stati identificati i corpi di altre 13 persone ritrovate in una delle fosse comuni di Tarhuna e tra loro non c’è il fratello di Hakim.

 

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