Il pomo della discordia. Lionel Messi è stato il più grande calciatore del primo ventennio del Ventunesimo secolo ma in questi giorni scopre di dover svolgere un ruolo inatteso: fare da schermo alla rivalità risorgente fra i due paesi che si contendono il ruolo di potenza egemone nella penisola araba e nell’intera arabosfera, il Qatar e l’Arabia Saudita.

Col calcio che ancora una volta si fa terreno di scontro perché il suo controllo è fondamentale, nell’odierno sistema economico globale che conferisce un’importanza sempre più centrale al vasto segmento dello svago e dell’intrattenimento. Averne la guida è essenziale tanto quanto lo è sabotare una posizione di vantaggio acquisita dall’avversario. Anche a costo di giocare sporco.

E forse il gioco sporco è stato appena inaugurato ma in modo molto soft, indiretto. Facendo finta che sia soltanto questione di un calciatore che si è concesso una libertà di troppo e adesso paga per questo.

Tra salario e partita Iva

Non c’è da formalizzarsi sul comportamento del fuoriclasse argentino, che come tutti i big del calcio di quest’epoca va dove lo porta l’Iban. E se stavolta lo ha portato nel posto sbagliato al momento sbagliato è stato anche a causa della posizione un po’ troppo promiscua in cui è venuto a trovarsi: dipendente del Qatar ma anche prestatore d’opera in immagine per l’Arabia Saudita. Sicché, al culmine di questa confusione fra lavoro dipendente e partita Iva, ha finito per compiere il gesto che ha fatto perdere la pazienza al datore di lavoro qatariota, che lo paga generosamente attraverso il Paris Saint Germain.

Nei giorni scorsi il capitano della nazionale argentina campione del mondo si è recato in Arabia Saudita per rispettare degli impegni pubblicitari. Col ministero del turismo saudita ha firmato un contratto sulle cui cifre circolano soltanto indiscrezioni (nel 2021 si era parlato di un’offerta da 6 milioni di euro all’anno, che era pure stata rifiutata), ma che di sicuro ne condiziona le scelte.

Fin qui il datore di lavoro qatariota aveva tollerato. Ma dopo il viaggio non autorizzato dei giorni scorsi verso l’Arabia Saudita, che ha portato Messi a saltare due allenamenti, è scattata la sanzione: due settimane di esclusione dall’attività agonistica e dallo stipendio.

Che francamente, in termini pratici, non sono un gran danno da nessun punto di vista. Specie per un calciatore che col suo club è in scadenza di contratto e che, a questo punto, ben difficilmente rinnoverà l’impegno.

Piuttosto a sconcertare è lo smacco inferto ai qatarioti, reso ancora più bruciante dalle giustificazioni fornite da Messi nella serata di venerdì, che poco giustificano. Il calciatore si è scusato col club ma ha aggiunto che proprio non poteva sottrarsi all’impegno in Arabia Saudita. E dunque ha ribadito che l’impegno pubblicitario coi sauditi avesse priorità rispetto ai doveri verso il datore di lavoro qatariota.

Il mantello strappato

Per capire la portata dello smacco bisogna andare oltre la mera cronaca e guardare agli aspetto simbolici della questione. Lo scorso 18 dicembre Lionel Messi si laureava campione del mondo con l’Argentina nel paese dei suoi datori di lavoro. E giusto perché venisse rimarcato il senso della cosa, al momento della premiazione il datore di lavoro (l’emiro in persona) metteva sulle spalle del suo dipendente un capo d’abbigliamento tradizionale per la cultura araba, il bisht.

Sono seguiti giorni di polemiche, poiché quel gesto era parso l’estremo atto di arroganza da parte dei ricchissimi organizzatori qatarioti, tollerato dal prono presidente della Fifa, Gianni Infantino. Ma al di là delle polemiche rimaneva l’aspetto simbolico del gesto, con l’emiro a rimarcare nel modo più spettacolare che il fuoriclasse campione del mondo fosse roba sua, ergo che il piccolo emirato esteso poco più dell’Abruzzo esercitasse una fortissima egemonia sul calcio globale.

A cinque mesi di distanza quel simbolo dell’egemonia, il fuoriclasse che è anche il più esosamente pagato fra tutti i dipendenti dell’emiro, dà priorità agli impegni contratti con altro lauto pagatore. Che per di più è il vicino saudita. Come se il mantello di quella notte di dicembre fosse stato strappato.

Questo aspetto aiuta a capire un po’ di più la profonda irritazione qatariota. Accresciuta dalle voci che si sono inseguite nelle ultime settimane, secondo le quali dal club saudita dell’Al Hilal sarebbe pronta per l’argentino un’offerta da 400 milioni di euro all’anno. Indiscrezioni che probabilmente non avranno un seguito ma che intanto arrivano proprio in un momento che registra un’inattesa perdita di smalto dei qatarioti in ambito calcistico.

Il tentativo di acquisire il Manchester United da parte di uno fra i tanti Al Thani legati alla famiglia che governa l’emirato continua a registrare l’impasse. Quel che è più, a Parigi monta il dissenso degli ultras cui ormai non bastano i trionfi nel campionato francese e la collocazione stabile nell’élite del calcio europeo per giustificare una gestione completamente sganciata dalla realtà locale.

Tutto quanto avviene a soli cinque mesi dalla chiusura dei mondiali, che dovevano portare a maturazione una prima fase di costruzione della politica di potenza e precedere una seconda fase di consolidamento e ulteriore espansione di un’immagine da smart country. E intanto che il progetto qatariota segna battute d’arresto proprio nel campo scelto per condurre nel modo più efficace l’operazione di propaganda, ecco che il vicino saudita ne approfitta per condurre una propria strategia dell’imitazione.

La lotta per l’egemonia

Sono molte le cose in ballo dentro questa partita fra due stati che hanno appena finito di fare pace. A giugno 2017 il Qatar, con l’accusa di ispirare il terrorismo islamico, era finito sotto embargo per volere dei sauditi che avevano portato sulle loro posizioni anche Bahrein, Egitto e Emirati Arabi Uniti. Il provvedimento era stato ritirato ai primi di gennaio del 2021 e da allora il riavvicinamento fra i due paesi è stato molto netto, toccando il culmine proprio nei giorni del mondiale qatariota.

Questa nuova vicinanza è stata certamente dettata dalla necessità di ricostruire un clima di concordia, ma molto ha inciso anche la volontà del principe ereditario saudita Mohammed bin Salman di copiare ai qatarioti il modello di successo adottato per accreditarsi come smart country globale, con quell’uso accentuato dello sport e specificamente del calcio per riuscire a centrare l’obiettivo.

Anche i sauditi hanno capito l’importanza dell’economia dello sport e dell’entertainment. Lo hanno colto in ritardo rispetto ai qatarioti, che da loro sono stati sempre trattati come parenti minori e invece hanno visto molto più lungo. E allora, invece di aversene a male per essere stati bruciati sul tempo, i sauditi hanno preferito copiare il modello e replicarlo su scala più vasta, sfruttando una dimensione da potenza regionale nettamente più elevata rispetto a quella dei qatarioti.

L’espansione dell’investimento saudita nello sport è esponenziale e ancora una volta il calcio è individuato come una leva determinante. L’ingaggio di Cristiano Ronaldo da parte dell’Al Nassr è stato un salto in avanti e l’eventuale arrivo di Messi in un altro club del campionato nazionale avrebbe valenza doppia per il contraccolpo che subirebbero i vicini qatarioti.

Se davvero andasse in porto la candidatura per ospitare i Mondiali 2030, in associazione con Egitto e Grecia, sarebbe il compimento di una strategia di affermazione come potenza culturale mondiale e di acquisizione dell’egemonia nell’arabosfera. Quest’ultima andrebbe contesa e strappata proprio ai qatarioti, che nel corso degli anni più recenti hanno costruito con mosse mirate e esorbitante impiego di risorse un prestigio internazionale che ha proprio nel mondo arabo la sua base più solida.

Per il momento il conflitto non è esplicito e forse non tornerà mai a esserlo.

Meglio combatterlo in modo indiretto. Per esempio, intorno alle mosse improvvide del fuoriclasse che va dove lo porta l’Iban. Il calcio è sempre geopolitica, purché non lo si dica troppo in giro.

© Riproduzione riservata