Con un aereo atterrato a Istanbul in mattinata, la ormai ex ministra degli Esteri libica Najla Mangoush si è lasciata alle spalle le proteste scoppiate a Tripoli nella serata di domenica dopo aver tenuto un incontro definito «storico» con il suo omologo israeliano.

Il colloquio sarebbe dovuto rimanere segreto ma invece è stato annunciato domenica scorsa dallo stesso ministro israeliano, Eli Cohen, che pubblicamente ha ringraziato il capo della Farnesina Antonio Tajani per aver mediato tra le parti, mettendo in difficoltà anche l’esecutivo di Giorgia Meloni.

Il meeting a porte chiuse si è tenuto infatti a Roma la scorsa settimana (non è ancora chiaro il luogo) e i due hanno discusso di relazioni bilaterali e tutele per la comunità ebraica presente nel paese.

Senza ombra di dubbio è stato un incontro storico: è da metà anni Sessanta che i due paesi non hanno relazioni diplomatiche, da quando Muhammar Gheddafi (strenuo sostenitore delle causa palestinese) decise di espellere gran parte degli ebrei presenti e di convertire in moschee decine di sinagoghe.

Ma neanche la morte del rais nel 2011 e gli accordi di Abramo del 2020 sono riusciti a far superare le divisioni politiche tra i due paesi e lo dimostrano le reazioni all’incontro.

Reazioni infuocate

Il Consiglio presidenziale libico – che svolge le funzioni di capo di stato – ha chiesto chiarimenti al governo di unità nazionale rappresentato dal primo ministro Abdel Hamid Dbeibeh. L’incontro tra i due ministri «non riflette la politica estera della Libia» e viene considerato come «una violazione delle leggi libiche che criminalizzano la normalizzazione con l’entità sionista».

Nelle stesse ore a Tripoli decine di uomini armati hanno preso d’assalto la sede del ministero degli Esteri e hanno tentato di dare fuoco alle residenze del premier e del consigliere della Sicurezza. A Misurata, sono state date alle fiamme bandiere israeliane e magliette su cui erano raffigurati i volti di El Mangoush e Cohen. Il primo ministro Dbeibeh ha detto che non sapeva nulla dell’incontro e ha sospeso dall’incarico Mangoush prima di rimuoverla definitivamente. Sul caso è stata anche aperta un’indagine amministrativa.

Il ministero libico, invece, ha minimizzato la portata dell’incontro che sarebbe avvenuto in maniera casuale alla Farnesina (per gli israeliani è durato più di due ore e in un luogo non istituzionale). Ieri dalla Libia alcuni funzionari in forma anonima hanno contraddetto Dbeibeh che invece sarebbe stato a conoscenza dell’incontro tra i due ministri. Dichiarazioni che minano il già precario consenso politico del premier. Anche dall’altra parte del Mediterraneo la notizia non è stata accolta con favore.

Alti funzionari del governo hanno accusato Cohen di aver causato danni alla diplomazia israeliana mentre per le opposizioni il caso è stato gestito in maniera dilettante. «L’incidente con il ministro degli Esteri libico è stato amatoriale, irresponsabile e una grave mancanza di giudizio», ha detto l’ex premier Yair Lapid. Alcuni funzionari vicini a Cohen hanno ribadito al Times of Israel il ruolo dell’Italia e hanno confermato che gli Stati Uniti erano informati dell’incontro avvenuto a Roma.

Il ruolo dell’Italia

Il pasticcio diplomatico ha creato scompiglio anche alla Farnesina, dove preferiscono non commentare l’accaduto vista l’alta tensione. La mediazione italiana rischia di danneggiare anche le relazioni che la premier Meloni si è costruita negli ultimi mesi con Dbeibeh, che è stato ospitato per due volte a Roma nell’ultimo anno e con il quale ha firmato una serie di accordi lo scorso giugno per arginare i flussi migratori. Senza alcun risultato.

 

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