Nel 1997 la Federazione Russa era una creatura quanto mai fragile. L’economia in disastro, le forze armate disorganizzate e indebolite, la società civile – distrutta dal totalitarismo comunista – in una condizione di balbettante infanzia, i contrasti politici assai acuti, la guida dello stato nelle mani di un Boris Nikolaevič El’cin dedito all’alcolismo.

La Russia poi, in preda alle doglie del passaggio da un’economia collettivizzata a una di mercato e nel caos istituzionale, era diventata terra di evangelizzazione da parte degli accorsi consiglieri statunitensi impegnati a insegnare le regole del capitalismo e della democrazia liberale.

In un simile contesto, agli Stati Uniti non parve vero si presentasse l’occasione di patrocinare nel 1997 l’estensione della Nato a una serie di paesi già inglobati nell’impero sovietico, facendo leva sul risentimento, certo non immotivato, che questi nutrivano nei confronti di quella Russia che per quasi mezzo secolo era stata la loro dura padrona.

Allargare la Nato

AP Photo/Olivier Matthys

Sennonché la domanda che si imponeva era: quale il significato di una strategia rivolta a gettare le basi di rinnovate tensioni con una Russia tanto indebolita? Saggezza o insipienza? E se la Russia avesse rialzato la testa e recuperato vigore sotto una nuova leadership?

Fu in quello stesso 1997 che cinquanta importanti esponenti della classe politica americana - tra i quali brillavano i nomi di George Kennan, Paul Nitze, Robert McNamara e John L. Gaddis -  diressero al presidente Bill Clinton una lettera nella quale scrivevano: «La Russia, oggi, non rappresenta alcuna minaccia per i suoi vicini occidentali e le nazioni dell’Europa centrale e orientale non sono in pericolo. Per questa ragione e per le altre addotte precedentemente noi crediamo che l’espansione della Nato non sia né necessaria, né desiderabile e che questa mal concepita politica possa e debba essere sospesa».

L’Ucraina neutrale

AP Photo/ Evgeniy Maloletka

Il messaggio rimase senza esito. E quella «mal concepita politica» andò a cozzare contro sia l’imprevista ricostruzione a opera di Vladimir Putin della potenza politica e militare della Russia sia le prevedibili crescenti tensioni tra questa e i governi filoccidentali di un’Ucraina che facevano dell’ingresso nella Nato e del confronto con la Russia l’alfa e l’omega della propria strategia. La possibilità di fare dell’Ucraina un paese neutrale, un fattore dunque non di tensione ma di distensione, è così andata frustrata.

Le conseguenze le abbiamo sotto i nostri occhi. Era logica inevitabile che Putin fosse disposto a correre i massimi rischi pur di scongiurare che in un’Ucraina entrata nella Nato si levassero verso il suo paese i missili installati dall’occidente.

Le tappe del conflitto

AP Photo

Conosciamo le tappe del progressivo degenerare delle relazioni tra l’Ucraina e la Russia a partire dal 2014, dopo la destituzione in febbraio, in un contesto di gravi violenze, del presidente filorusso Jakunovyč e le contromisure prese da Putin: riappropriazione da parte della Russia della Crimea che, abitata per la maggioranza da russi, nel 1954 era stata “regalata” all’Ucraina sovietica da un Nikita Kruscev inteso per farsi perdonare le crudeltà da lui commesse quando negli anni Trenta vi era stato inviato da Iosif Stalin in qualità di proconsole; formazione nella regione del Donbass, anch’essa popolata da una maggioranza di russi, delle repubbliche di Doneck e di Lugansk.

Dal 2014 in avanti è stato un susseguirsi di accuse e controaccuse a opera delle controparti. Ora Putin propone un accordo sulla base dell’impegno degli Stati Uniti e dell’Unione europea di non accogliere la richiesta dell’Ucraina di entrare nella Nato, ma l’amministrazione di Joe Biden fa il muso duro e i paesi dell’Unione – come al solito divisi in circostanze simili – sono chiamati a scoprire le proprie carte, anche di fronte alla richiesta degli americani di archiviare il Nord Stream-2, che dovrebbe portare il gas dalla Russia alla Germania.

La storia si ripete

La situazione è, insomma, giunta a una fase di allarme rosso in un quadro internazionale segnato dall’avvento di una nuova “guerra fredda” che vede schierati da una parte gli Stati Uniti alla ricerca del recupero di un primato mondiale che non ha più le risorse per sostenere e una Unione europea in politica estera sempre divisa e insicura nelle situazioni calde. Dall’altro la Cina di Xi Jinping in prepotente ascesa e la Russia di Putin decisa a impedire che l’Ucraina diventi per lei la replica di ciò che la Cuba armata con i missili sovietici rischiava di diventare per gli Stati Uniti nel 1962. In mezzo, come sempre, tutti gli altri.

© Riproduzione riservata