Il presidente dell’Ucraina, Volodymyr Zelensky, a ridosso suo insediamento dopo l’elezione, disse che il compito primario del paese era porre fine alla guerra nella regione del Donbass.

«Spesso mi hanno chiesto cosa sono pronto a fare affinché si giunga a un cessate il fuoco. È una domanda bizzarra. Cosa siete pronti a fare voi, ucraini, per salvare la vita dei vostri cari? Posso assicurarvi che affinché i nostri eroi non muoiano più io sono pronto a tutto», disse.

«In questi anni il governo non ha fatto nulla perché loro si sentissero di nuovo ucraini. Non sono stranieri, sono dei nostri. Sono ucraini». Il presidente neoeletto parlava indicando il cuore e, nei momenti salienti del suo discorso inaugurale, passava fluidamente dall’ucraino al russo.

Per sottolineare la sua volontà di cambiamento radicale della politica del paese, sciolse il parlamento, la Verkhovna Rada, indicendo subito nuove elezioni.

Era il maggio del 2019. La guerra, che finora ha causato 14mila vittime e un milione e mezzo di sfollati, la riconquista dei territori sottratti dai separatisti e dai russi (il Donbass e la penisola di Crimea) e il rimpatrio dei prigionieri non potevano che temi al centro del dibattito di allora.

Anche il presidente uscente, Petro Porošenko, aveva basato il proprio slogan elettorale sulla triade essenziale per un paese allora in guerra già da cinque anni: «Esercito, lingua, fede».

Da allora sono trascorsi due anni e mezzo e le promesse che echeggiavano in tempo di campagna elettorale e nelle primissime settimane di Zelensky alla presidenza sono già un lontano ricordo.

Il lento declino

Alcuni recenti sondaggi sottolineano come il consenso popolare per Zelensky sia oggi inferiore al 30 per cento e che addirittura oltre il 70 per cento degli intervistati ritiene che il paese stia andando nella direzione sbagliata.

Il presidente, insomma, sembra aver deluso il suo elettorato. Sempre durante il suo primo discorso, ricordando la sua carriera da comico, sottolineò come nella vita abbia fatto di tutto «per far sorridere gli ucraini». Almeno per ora, però, non sembra essere riuscito a fare quello che prometteva, in particolare sul conflitto del Donbass: «Nei prossimi cinque anni farò di tutto, ucraini, perché voi non piangiate», disse al termine del suo discorso.

Non si può certo dire che dal 2019 a oggi Zelensky non ci abbia messo la faccia, e una discreta dose di buona volontà, nel tentare di risolvere la situazione. Più volte si è recato nella regione, nel luglio di quell’anno anche in compagnia di Donald Tusk, allora presidente del Consiglio europeo.

Promesse mancate

Marco Alpozzi / LaPresse

La scorsa primavera con un ennesimo videomessaggio, modalità di comunicazione molto usata dal presidente, da sempre attento al lato social e mediatico della sua figura e linea politica, Zelensky ha anche invitato pubblicamente la controparte russa, il presidente Vladimir Putin, a incontrarsi «in qualsiasi punto del Donbass ucraino, dove è in corso la guerra», sottolineando che sulla linea di contatto «io ci vado ogni mese».

Una delle promesse che ancora non ha mantenuto è il referendum sulla stessa crisi del Donbass e gli accordi di pace con la Russia. Il suo partito, Sluha narodu (Servitore del popolo), lo aveva ventilato durante l’insediamento presidenziale, ma al momento questa ipotesi non si ancora concretizzata.

Il primo faccia a faccia tra Putin e Zelensky è avvenuto a Parigi il 9 dicembre 2019 nel corso dell’ultimo incontro tra i paesi del cosiddetto “formato Normandia” (Russia, Ucraina, Francia, Germania). Sebbene le posizioni essenziali tra Mosca e Kiev rimangano fondamentalmente distanti (in particolare in merito alla “formula Steinmeier” che chiede il ritiro delle truppe russe, le successivamente elezioni e uno status speciale per la regione del Donbass), il documento firmato allora sanciva simbolicamente la volontà di continuare a negoziare diplomaticamente sulla situazione in corso.

L’importanza degli Stati Uniti

Marco Alpozzi / LaPresse

Tuttavia, anche alla luce dello status quo che perdura ormai da tempo e che pare non sbloccarsi attraverso gli accordi di Minsk e gli incontri del formato Normandia, Zelensky fin dall’inizio non ha nascosto l’interesse verso il coinvolgimento di altri paesi ai tavoli dei negoziati, in primo luogo gli Stati Uniti.

Tralasciando l’intricato e vischioso scandalo Ucrainagate che rese note alcune pressioni specifiche di Donald Trump su Zelensky, in un videomessaggio del luglio del 2019 il presidente ucraino invitava apertamente ad ampliare il formato Normandia ai leader inglese e statunitense.

Già nel suo discorso inaugurale parlava inoltre di «concretizzare gli standard Nato» e dichiarava che l’Ucraina aveva indiscutibilmente «scelto la via dell’Europa». Se da un lato il neoeletto presidente rassicurava l’elettorato delle proprie posizioni internazionali, dall’altro non faceva che portare avanti la linea del suo predecessore Porošenko, che a pochi mesi dalle elezioni aveva introdotto nel preambolo della Costituzione l’intenzione chiara e “irreversibile” del paese a divenire membro Nato e dell’Unione europea.

Si tratta in realtà di un progetto assai vago, dato che Kiev non vanta lo status di paese candidato a nessuna delle due entità.

Mentre Zelensky è impegnato a fare i conti con la sua popolarità in calo e ad arginare oligarchi e opposizione (all’inizio del mese temeva anche un colpo di stato), la Germania post-Merkel e la Francia vicina alle elezioni non giocano più il ruolo di un tempo all’interno del formato Normandia.

All’indomani della tragica ritirata dall’Afghanistan, volenteroso di riallacciare i rapporti con l’Europa, il presidente Joe Biden ha tutti i motivi per ribadire il proprio supporto a Kiev. Tuttavia è molto improbabile che Washington maturi l’intenzione di far scoppiare una guerra “calda” in Europa, anche nel caso di invasione russa oltre i confini delle attuali repubbliche separatiste.

Auspicare una partecipazione maggiormente attiva statunitense è per Zelensky una scelta pragmatica pressoché obbligata soprattutto sul piano interno: riconquistare i territori persi e ricompattare il paese vuol dire riconquistare il favore dell’elettorato e unire nuovamente le posizioni in parlamento, nonché rispettare gli impegni presi all’indomani della vittoria delle elezioni e porre così «fine alla guerra nel Donbass».

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