Le recenti manifestazioni a Cuba sono state interpretate dalla quasi totalità degli organi di stampa nazionali e internazionali come l’ennesima dimostrazione del carattere antidemocratico delle autorità locali, della loro sordità dinanzi alle legittime richieste della popolazione di maggiori libertà e diritti e della loro incapacità di far fronte a una povertà diffusa. Di contro, le motivazioni addotte dalla dirigenza cubana sono state: coloro che hanno protestato sono una esigua e violenta minoranza manovrata dagli Stati Uniti e al soldo della comunità cubano-statunitense; l’embargo imposto da Washington fin dal 1960 è la causa delle difficoltà economiche del paese.

Peraltro, ai cubani è assicurato l’accesso gratuito alle cure mediche e all’istruzione, nonché alloggio, occupazione e fabbisogno alimentare, tutti servizi spesso negati o privatizzati in tanti paesi della regione latinoamericana e in molti della “periferia” del pianeta.

Gli effetti della pandemia

Prestazioni che altrove in America Latina sono state penalizzate dalla pandemia, mentre a Cuba sono state garantite seppure con fatica, e sebbene le riforme economiche varate a inizio anno dal presidente Díaz Canel abbiano innescato una spirale “depressiva” dell’economia che ha penalizzato le fasce medie e basse della società escluse dal turismo (peraltro in caduta libera nell’ultimo anno e mezzo) e che non accedono ai benefici della doppia valuta.

A causa della lente deformante delle “appartenenze ideologiche”, l’attuale emergenza sanitaria non è stata presa in considerazione nelle analisi seguite ai fatti dell’11 luglio. Le ricadute sociali non potevano non investire anche Cuba, ma qui non hanno alimentato proteste popolari comparabili a quelle che si sono verificate in altri paesi né, tanto meno, le strette repressive e la violenza delle forze di polizia. Non pochi sono stati, infatti, i governi che in America Latina hanno utilizzato la pandemia per praticare ulteriori restrizioni alle libertà individuali e ai diritti. Su tutti quello del Brasile, ma anche del Cile, Messico, El Salvador, Honduras, dove si è fatto ampiamente ricorso alle Forze Armate per assicurare coprifuoco e stato di emergenza.

In Europa la destra, ma anche settori “progressisti”, accusano i difensori di Cuba di omettere la questione delle libertà democratiche e dei diritti politici. Critica legittima, che meriterebbe di essere affrontata senza partigianeria e senza usare come termine di paragone il nostro vecchio continente dove, peraltro, non sembra che in fatto di diritti e libertà si sia messi poi così bene. Sin dal trionfo della rivoluzione castrista nel 1959, l’isola caraibica è sempre stata “divisiva” e capace di rinnovare periodicamente la classica logica amico/nemico.

Così, a volte alimentando consapevolmente il dibattito pubblico internazionale, altre dovendo subire processi di disinformazione, Cuba ha ininterrottamente ridotto gli spazi di confronto non fazioso. Vale anche per gli eventi più recenti e ancor più nel sistema attuale dell’informazione e delle reti sociali dove le sfumature e la complessità sono sempre più compresse a favore di giudizi trancianti e interpretazioni iper-semplificate.

Non v’è dubbio che, soprattutto nelle fasce più giovani, ci sia una parte di popolazione cubana insoddisfatta e che aspiri a vivere in una democrazia liberale (e secondo i principi della filosofia liberista); che gli spazi e le voci del dissenso siano compressi; che la società sia ingessata e l’attività politica non allineata ai desiderata del regime ridotta e controllata; che l’attuale governo, in continuità con quelli guidati dai fratelli Castro, si rifiuti, quindi, di accettare l’ipotesi che dal seno della società cubana possa autonomamente maturare un’alternativa politica a quella in corso da oltre 60 anni.

Allo stesso modo, non si può omettere la “guerra di bassa intensità” che L’Avana patisce da decenni, guerra che avrebbe messo in difficoltà qualsiasi paese al mondo, di qualsiasi regime; il macigno rappresentato dall’anacronistico ostracismo statunitense che penalizza la popolazione cubana, senza peraltro raggiungere minimamente l’obiettivo del cambio di regime; il diverso trattamento riservato dalla comunità internazionale a governi di certo non più rispettosi della democrazia e dei diritti politici di Cuba, esecutivi magari corrotti, repressivi, con spiccate tendenze autoritarie, che nulla fanno per contrastare la spirale di violenza, soprattutto quella in drammatico aumento contro le donne. Si pensi al Messico, alla Colombia, al Venezuela, al Brasile, solo per fare qualche esempio.

Quale futuro?

Cuba non è il paradiso in terra, ma nemmeno l’inferno come molti la dipingono. Ciò che oggi mette in crisi il socialismo caraibico è che, dopo l’uscita di scena di Fidel, tanto alle generazioni che hanno vissuto le numerose crisi del passato, su tutte il periodo especial, quanto a quelle più giovani che in un mondo iperconnesso aspirano a nuovi e sempre più seducenti (sebbene fugaci) modelli di vita, sembra mancare una visione e una promessa riguardo il futuro.

La vetrina del consumismo occidentale amplificata dai nuovi mezzi di comunicazione non può non essere un fattore di attrazione per coloro che sono nati dopo la Guerra fredda e prima o poi il regime dovrà fare i conti con questo dato di fatto. Ciò nonostante, l’attuale classe dirigente gode ancora di un ampio consenso.

Le analisi superficiali o interessate che stanno circolando in questi giorni anche in Italia non tengono conto in primo luogo di questo: senza il consenso della maggioranza della popolazione il regime cubano non sarebbe mai sopravvissuto alla Guerra fredda, al crollo dell’Unione Sovietica, a 60 anni di embargo ed alle tante altre tempeste che hanno investito l’isola caraibica. Stringendo la cinghia (inasprendo la repressione secondo i suoi detrattori), battendo strade inesplorate o lanciandosi in progetti in taluni casi fallimentari e/o effimeri.

O seguendo una pragmatica e oculata politica estera che ha consentito di allacciare, a seconda delle congiunture, alleanze con attori, regionali o internazionali, in grado di sostenere l’isola, come quella con il Venezuela “bolivariano”, che con i suoi petrodollari ha sorretto negli ultimi due decenni l’economia cubana. Tuttavia, questo partner è attualmente afflitto da una gravissima crisi economica, istituzionale e di legittimità e L’Avana non può più fare affidamento su quell’eterogeneo fronte di sinistra che per il primo quindicennio dell’attuale millennio ha governato in quasi tutti i paesi del subcontinente. Da Washington, poi, non arrivano segnali incoraggianti.

L’orizzonte americano

L’amministrazione di Joe Biden ha sinora mostrato di volersi muovere nel solco della continuità del suo predecessore, Donald Trump, il quale ha rafforzato l’embargo con oltre 200 misure ostili addizionali, la maggior parte delle quali tese a strangolare ulteriormente l’economia cubana, già prostata dalla pandemia.

E dire che Biden è stato il vicepresidente di Barack Obama durante la cui presidenza si normalizzarono le relazioni diplomatiche tra i due paesi.

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