Tutti noi abbiamo un’idea piuttosto stereotipata della democrazia liberale. Fin dalla scuola ci viene insegnato che al centro dei sistemi politici occidentali c’è il concetto di rappresentanza, insieme a quello di Costituzione. La democrazia che abbiamo in mente è un processo verticale: i cittadini con regolarità ciclica eleggono i propri rappresentanti, che si presentano organizzati in partiti e movimenti; qualcuno ottiene la maggioranza dei seggi; si forma un governo; e la politica decide gran parte delle regole della nostra vita pubblica. Ma questo processo è solo in par te vero poiché la dinamica delle istituzioni democratiche ha oramai raggiunto un livello di sofisticazione che non è più riducibile a questo semplice schema, a meno di non voler generare pericolose illusioni (e delusioni) in ciascuno di noi.

Negli ultimi decenni i nostri sistemi politici hanno sempre di più raggiunto la forma di regimi misti, che in realtà avevano sempre avuto fin dalle origini. C’è la rappresentanza politica, ma poi ci sono le burocrazie, i gruppi di pressione, un potere giudiziario diffuso e multilivello, le istituzioni sovranazionali e internazionali, quelle economiche come la Banca centrale europea e le autorità amministrative. E ci sono i vincoli dei mercati finanziari e l’importanza rilevante e spesso ben nascosta di tanti attori del capitalismo pubblico e privato, basti pensare al ruolo nell’elaborazione, la pianificazione e il monitoraggio delle politiche pubbliche che le grandi società di consulenza manageriale svolgono per i governi. Insomma, il demos è contornato da un kratos che non gli appartiene in esclusiva, ma è condiviso con molte altre organizzazioni e istituzioni.

Sistemi di legittimazione

Alla fine del Diciannovesimo secolo – in un mondo che ancora doveva conoscere il suffragio universale e lo stato sociale – Gaetano Mosca distingueva tra governanti e governati. All’epoca la struttura sociale era più semplice e quindi ci si poteva permettere una generalizzazione tanto ampia: governavano in pochissimi e obbedivano tutti gli altri.

Già qualche decennio più tardi Roberto Michels, un allievo di Mosca, iniziava a sottolineare come l’organizzazione capitalistica e la politica democratica producessero molteplici burocrazie che si ponevano a metà strada tra i governanti e i governati. Nello stesso periodo Vilfredo Pareto, non a caso, parlerà di classi di governanti dall’importanza variabile, disponendole su gradi e scale diverse. Poco dopo arriverà la lezione di Max Weber che incrociava la verticalizzazione della politica attraverso l’emersione del leader carismatico con l’inevitabile e crescente importanza dell’amministrazione – quello che egli chiamava il potere legale-razionale – e con un rapporto sempre più stretto e osmotico tra stato e capitalismo che avrebbe burocratizzato entrambi i fenomeni.

Come si può osservare, dunque, già prima della Seconda guerra mondiale le nascenti democrazie di massa sperimentavano molteplici forme di legittimazione del sistema. In altre parole, alla domanda “perché obbedire all’autorità?”, non si rispondeva soltanto “perché si è votato” ma si affacciavano diverse risposte: si obbedisce all’organizzazione, alla competenza tecnica, all’efficienza economica.

In sostanza, fin dai loro albori, le democrazie di massa si sono confrontate con una mescolanza di sistemi di legittimazione. Si era affermata nella cultura diffusa l’idea tocquevilliana della «promessa che ciascun essere umano abbia pieno e assoluto controllo sulla propria esistenza, conducendola come e dove meglio crede; e la pretesa da parte degli esseri umani che quella promessa sia mantenuta», ma accanto a essa si affermavano forme di obbedienza che portavano con sé principi gerarchici, economici o aristocratici.

Strutture di mediazione

Si svelava già una grande contraddizione culturale della democrazia liberale per cui in parallelo al rafforzamento dell’autodeterminazione libera dell’individuo e della collettività si sviluppavano nuove istituzioni non rappresentative con delle barriere all’ingresso per gran parte della popolazione. E queste seconde istituzioni si sono rese necessarie per “contenere” la democrazia (e la demagogia) e governarla, per rafforzare il controllo e l’ordine, evitare egualitarismi potenzialmente ingestibili per i governanti.

Non è un caso che le masse siano entrate nell’arena politica attraverso “strutture di mediazione” come i partiti, i sindacati, le associazioni e le corporazioni. Il pensiero corporativo e quello tecnocratico sviluppatisi tra le due guerre non sono che un tentativo di mettere ordine, gestire, amministrare la sommatoria tra la democrazia di massa e il capitalismo maturo, o attraverso la partecipazione organizzata (corporativismo) oppure tramite l’efficienza manageriale (tecnocrazia) al fine di aumentare il benessere generale.

Questi esperimenti non andranno sempre a buon fine e in vari casi accompagneranno, più che preverranno, il collasso delle fragili democrazie primo novecentesche. La Seconda guerra mondiale, però, stringerà ulteriormente le maglie del rapporto tra capitale, scienza e burocrazia. Tutti i paesi conosceranno la nascita di nuove burocrazie nelle tensioni degli anni Trenta e poi nel conflitto.

È il caso, ad esempio, della proliferazione degli enti pubblici nel corso del fascismo, sia di quelli votati all’assistenza sociale che soprattutto quelli economico-finanziari fondati da Alberto Beneduce, il più importante tecnocrate del regime. Questo processo di “entificazione”, in cui si reclutavano figure tecniche e manageriali, sopravviverà alla guerra e fonderà l’economia mista dell’Italia repubblicana e democratica marcando una certa continuità dello stato nel passaggio dalla dittatura alla democrazia.

Lo stesso processo, pur in forma diversa, si determinerà negli Stati Uniti prima con la grande crescita burocratica organizzata in agenzie per attuare le politiche sociali del New Deal e poi attraverso la creazione del complesso militare-industriale, che dava origine a un sodalizio osmotico tra scienziati, burocrati e grandi industrie della difesa.

Processi simili, legati allo sviluppo del welfare state, ai tentativi di economia pianificata e alle politiche di deterrenza, si ebbero in Francia, nel Regno Unito e nella Germania occidentale. Nei primi decenni del dopoguerra, dunque, accanto alla protezione delle libertà fondamentali, allo sviluppo dei diritti sociali, all’introduzione del suffragio universale, fiorirà anche un sistema di tecno-strutture, non rappresentativo ma politicamente e culturalmente influente, come identificato dal grande economista progressista Galbraith nel suo libro sullo stato industriale del 1968.

Le classi dirigenti diventavano osmotiche, capaci di muoversi tra politica, amministrazione e settore privato con grande disinvoltura. In un recente libro, Janine Wedel ha ricostruito la nascita di questa “shadow élite”, proprio per segnalare il processo di “invisibilizzazione” dei poteri, distribuiti in poliarchie pubbliche e private estremamente flessibili.

Disgregazione istituzionale

La rivoluzione dei costumi e dei diritti del ‘68 e la crisi degli anni Settanta, con il tramonto del paradigma keynesiano, hanno aperto una nuova fase storica, senza per questo rinunciare a cercare fonti nuove di legittimazione delle democrazie. Il disgregarsi della tradizione ha aperto uno squarcio nelle vecchie “istituzioni cuscinetto” come la famiglia, la chiesa e il partito, lasciando il cittadino democratico da solo e senza legami, annegato nella politica mediatizzata e di fronte a istituzioni multilivello; mentre la globalizzazione economica ha avviato un processo di integrazione sovranazionale tra governi volto a diluire la sovranità degli stessi.

Come dopo ogni crisi era cambiata la fisionomia del potere. La teoria della sovranità veniva abbandonata in favore di una teoria del governo di stampo neo-cameralista, rivolta alla ricerca dell’efficienza nel governare prima che alla rappresentanza; nell’Europa di Maastricht gli stati-nazione si trasformavano in stati-membri ricavando la propria legittimazione da accordi con le altre entità nazionali e sovranazionali.

In queste trasformazioni, la conseguente disgregazione istituzionale ha prodotto un vuoto: comunicazione e leadership volatili hanno sostituito i partiti e le ideologie, mentre sul piano internazionale una miriade di istituzioni giudiziarie, regolatorie, finanziarie – tutte sottratte al principio di rappresentanza e fondate su un principio tecnocratico – si formavano ed espandevano.

Lo stesso neoliberalismo, come di recente notato da Quinn Slobodian nel suo libro Globalists, da un lato rafforzava la libertà economica su scala sovranazionale e proteggeva il capitalismo dall’instabilità della democrazia – grazie soprattutto al diritto (si pensi ai vincoli di bilancio nei Trattati europei) e alla nuova struttura istituzionale internazionale – dall’altro, proprio per realizzare il primo obiettivo, contribuiva a svuotare la legittimità dei vecchi stati-nazionali e a far evaporare le altre ideologie.

L’ottimismo degli anni Novanta portava la cultura occidentale verso l’idea che la legittimazione democratica potesse integrarsi con una legittimazione “per output”, cioè fondata sul successo economico e sull’accrescimento dell’efficienza. Questa parabola neoliberale si è chiusa con la crisi del 2007-2008. Una crisi finanziaria, come ha spiegato lo storico Adam Tooze, risolta da un salvataggio del sistema che è poggiato più sul potere tecnocratico delle banche centrali che su parlamenti e governi.

Inoltre, la coda del neoliberalismo ha prodotto una eterogenesi dei fini: un sistema nato, almeno idealmente, intorno all’idea della concorrenza si è concluso con crescenti concentrazioni di capitali, con lo strapotere degli oligopoli digitali e con un crescente protezionismo. Una verticalizzazione e centralizzazione dell’economica che si è affiancata a quella della politica.

Reazione populista

Naturalmente la disgregazione dal basso delle vecchie istituzioni e l’integrazione tecnocratica dall’alto ha originato, di fronte a una crisi economica, sociale e migratoria, una reazione populista e sovranista volta a sovvertire l’ordine che si era cercato di costruire nei decenni precedenti. È a quel punto che le democrazie occidentali hanno iniziato a riflettere sulla propria fragilità.

Le promesse ottimistiche di un mondo piatto, senza confini, tecnologicamente avanzato, incentrato sul consumo e sulla libertà personale assoluta sembravano aver innescato una spirale di insoddisfazione inarrestabile e ridare vita a forme di tribalismo diffuso e rissoso. La polarizzazione ha innescato una dinamica di delegittimazione, con forze politiche e culturali avverse, incapaci di riconoscersi l’un l’altra.

Sulla tradizionale divisione tra destra e sinistra si è innestata una ulteriore frattura tra chi ancora credeva nei vecchi paradigmi e chi non intendeva accettarli più. La pandemia ha in parte contribuito a raffreddare questa contrapposizione, con un potere tecnocratico rafforzato dall’emergenza sanitaria e una riunificazione dell’elettorato di fronte a una minaccia paurosa, ma in parte ha rivelato gli effetti della polarizzazione. L’idea del “nemico in casa” – è il caso dei no vax agli occhi della maggioranza della popolazione vaccinata –, e di una sfiducia radicale verso l’autorità di certi gruppi – è il caso della proliferazione dei complottisti –, si sono disvelati nel nostro dibattito mediatico come sintomo di una patologia politica.

In risposta alla paura e al disordine lo stato pandemico si è fatto più paternalista, controllore, tecnico, interventista nell’economia. Il pendolo del potere si è ulteriormente spostato verso l’esecutivo a discapito dei parlamenti e, questa volta, anche dei mercati.

Sotto la pressione dell’emergenza sanitaria la classe dirigente è stata spinta verso un rapido cambiamento del paradigma economico; neoliberalismo e ordoliberalismo hanno lasciato spazio a uno stato regolatore e controllore, si pensi all’utilizzo estensivo della golden power, ai prestiti e alle deroghe per sostenere i lockdown, agli incentivi e ai sussidi per contrastare l’inflazione.

Ma la pandemia ha anche disegnato una nuova formula politica: populismi e nazionalismi si sono indeboliti oppure sono stati assorbiti e istituzionalizzati dai sistemi politici. Un’ibridazione che ha spinto i governanti a recepire alcune politiche pubbliche ed economiche di marca populista, a governare con gli avversari trasformati ora in alleati. La circolazione dell’élite, d’altronde, prevede sempre una osmosi tra vecchio e nuovo, proprio come predetto da Gaetano Mosca.

Il paradosso

Infine, l’invasione russa in Ucraina ha riportato all’attenzione il problema della guerra e del nemico nelle democrazie. Si svela così il maggior paradosso della democrazia liberale, costretta a misurarsi con uno sfidante che non è mai soltanto esterno, ma anche interno. È ovvio che alcuni gruppi della classe politica attuale sono e rischieranno di essere esclusi dalla possibilità di governare per i propri orientamenti in politica estera. Lo stesso è accaduto nelle democrazie sia durante la Seconda guerra mondiale che soprattutto durante la Guerra fredda. Insomma, per dirla con il giurista tedesco Bockenforde «lo stato liberale poggia su presupposti che non è in grado di garantire» anche questa volta.

La democrazia liberale, per proteggere sé stessa, o ciò che ne resta, è costretta nelle emergenze a costruire meccanismi di esclusione dal governo (si pensi alla conventio ad excludendum), a delegittimare e screditare delle posizioni politiche, a cercare e costruire un nemico interno, a disciplinare chi intende turbare l’ordine della ragion di stato. Un meccanismo che può risultare odioso agli occhi di molti poiché restringe gli spazi del pluralismo e aumenta l’intolleranza, ma da sempre utilizzato per proteggere il nocciolo duro degli interessi e degli obiettivi dello stato e di chi lo governa.

Autorità e potere

Tuttavia, le democrazie sotto stress rischiano sempre di precipitare in una crisi di autorità, di scivolare nella guerra civile innescata dalla guerra esterna e dalle sue conseguenze. E qui ritorna utile la distinzione tra autorità e potere.

A differenza del potere, che non necessita per forza alle spalle di un quadro di valori, norme e assunti socialmente condivisi che lo autorizzino, l’autorità è collettiva e si affida a credenze diffuse al fine di poter essere “autorizzata”, ossia accettata e obbedita. Il potere può rifarsi a valori di un sottogruppo sociale o di una parte di un sistema politico, mentre l’autorità deve necessariamente riferirsi a tutto il gruppo o a tutto il sistema politico. Il potere è un fatto che riguarda una parte, l’autorità è, invece, un fatto generalizzato, riguarda tutti. L’autorità non può prescindere da un riconoscimento generale: essa deve essere fondata su un principio morale o giuridico o quant’altro che investe la collettività.

L’autorità è, insomma, per usare un’espressione di Weber, «il potere più la norma», e questo la rende così come la intendiamo nel parlare comune, ossia impersonale, regolata e qualificata. Per questo, essa si pone al di sopra dei poteri personali, del particolarismo e della specificità, che è, invece, una proprietà del potere. Tuttavia, come ha notato Andrea Lippi in un recente libro sulle Dinamiche della legittimazione politica, non è per forza necessario avere un apparato giuridico raffinato e colto per legittimare un’autorità, ma è indispensabile avere una giustificazione più ampia e condivisa possibile che sia considerata come “giusta”, nel senso di adeguata alle istanze di chi riconosce quell’autorità, ovvero che la riconduca in qualche modo al dèmos. Ma come si è visto, la pluralizzazione e flessibilizzazione delle élite originata dal rapporto stretto tra stato e capitalismo, e poi la disgregazione delle istituzioni tradizionali hanno condotto le democrazie liberali a una legittimazione ibrida, fondata su varie sorgenti (rappresentanza, competenza, efficienza, stabilità) da cui sgorga l’obbedienza.

Tuttavia, la legittimazione ibrida genera autorità ibrida, la quale chiama in causa ancora altre forme di ibridazione. Si tratta di una specie di spirale che origina dalla crisi di legittimità “pure” (stato, religione, ideologia ecc) e che investe in pieno anche quelle “spurie” intervenute per surrogare e sostenere la crisi delle prime.

Tutti i fenomeni sopra descritti, infatti, pur con le loro contraddizioni, originano per conferire senso ad autorità che non riuscivano più a trarre legittimità facendo leva sulla loro validazione costitutiva. L’attuale forma di legittimazione delle democrazie liberali è dunque fragile, proprio perché ibrida e relativa, e costretta a raccontare una continua riforma, al fine di legittimarsi.

Il rischio, di fronte a crisi di vario tipo sempre più susseguenti e difficili da governare, è la perdita di legittimità del sistema politico. In questo caso l’autorità, nerbo della convivenza politica e sociale, regredisce verso il puro potere, cioè verso una conflittualità tra gruppi senza coesione né riconoscimento reciproco. La regressione dell’autorità in potere determina il venir meno dell’ordine politico, perché l’autorità ha una funzione stabilizzante e contenitiva dello stesso, e conseguentemente del regime politico che vi è costruito.

Uno scenario che riapre la breccia della guerra civile, del ritorno di un “politico indomabile”, e del dominio coercitivo e illiberale. L’equilibrio fragile delle democrazie contemporanee è sempre costretto a fare i conti con le sue contraddizioni interne, ancora di più di fronte alla forza disgregatrice interna ed esterna della guerra.

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