Leggere con una diottria di scetticismo le informazioni diffuse dai governi, specialmente in tempo di guerra, è una pratica che il mondo esercita con particolare cura almeno da quando gli Stati Uniti hanno giustificato l’invasione dell’Iraq agitando – letteralmente – prove false delle armi di distruzione di massa. 

Quello era un caso plateale, ma da sempre gli stati presentano gli eventi in modi e forme che tendono a veicolare una certa interpretazione dei fatti e a indurre nel pubblico sentimenti favorevoli a sé e ostili al proprio nemico.

A volte l’operazione si conduce con un’oculata somma di omissioni e alterazioni di elementi del contesto che cambiano il senso di una comunicazione, altre volte ricorrendo in modo più brutale ed esplicito alla menzogna.

La guerra scatenata da Hamas con l’attacco del 7 ottobre è, come tutti i conflitti, anche una guerra d’informazione e perciò una guerra di fiducia. Di chi ci si può fidare per stabilire che cosa sta succedendo con un certo grado di attendibilità? 

Le fonti ufficiali a disposizione sulla maggior parte degli eventi sul campo sono essenzialmente due: Israele e Hamas. Le conferme indipendenti di alcuni fatti fondamentali –  come il numero delle vittime – sono complicate, richiedono tempo, risorse, e soprattutto implicano la presenza sul campo non episodica di soggetti credibili – giornalisti, organizzazioni internazionali, ong – che non hanno incentivi a dare ragione a una parte.

È saggio esercitare il suddetto scetticismo verso le comunicazioni di Israele, stato per cui la sicurezza – e la gestione delle informazioni ad essa connesse – è una questione esistenziale. Non sfugge a nessuno che l’Idf e tutti gli apparati lavorano a tempo pieno per convincere il mondo che l’assedio di Gaza è legittimo, che avviene nel rispetto del diritto internazionale, che i militari stanno facendo di tutto per minimizzare le vittime civili e così via.

Altrettanto saggio usare (almeno) lo stesso metro per le comunicazioni che arrivano da Hamas. Tutte le informazioni che abbiamo sulle vittime degli attacchi israeliani e sulla situazione umanitaria a Gaza provengono dal ministero della Salute di Gaza.

Il ministero aggiorna quotidianamente il conto dei morti e dei feriti, organizza conferenze stampa in cui dà conto della situazione umanitaria, indica i siti degli attacchi israeliani e attribuisce responsabilità.

Le stime vengono rilanciate in tempo reale dai media, che generalmente citano la fonte, ma dal momento che nessuno dà numeri alternativi o è in grado di controllare la veridicità di quelli del ministero, tendono a diventare quelli comunemente accettati. Nel bollettino del 20 ottobre, ad esempio, il ministero ha detto che le vittime del conflitto sono 4.137 e i feriti oltre 13mila. 

La bomba all’ospedale

Servono capacità e risorse notevoli per raccogliere, classificare, aggiornare in tempo reale e comunicare dati complessi in un teatro di guerra in uno dei luoghi più densamente popolati del pianeta – nella Striscia vivono oltre 2 milioni di persone – ma in alcune circostanze particolarmente gravi il ministero ha dimostrato una rapidità d’indagine addirittura prodigiosa.

Dopo l’esplosione all’ospedale Al Ahli al Arabi del 17 ottobre il ministero ci ha messo 22 minuti per comunicare che le vittime erano almeno 200 e che l’esplosione era stata causata da un attacco aereo israeliano. Qualche minuto più tardi ha fatto sapere che i morti erano almeno 500, numero che si è diffuso ovunque. Nemmeno il ministero della Salute della Svizzera sarebbe arrivato a valutazioni così precise in così poco tempo.

Nel giro di qualche ora il ministero ha organizzato una conferenza stampa, piazzando un leggio fra i corpi senza vita ammassati nel parcheggio dell’ospedale. Intorno ai portavoce che si alternavano, uomini e donne tenevano fra le braccia cadaveri di neonati.

Due giorni dopo il ministero ha sostanzialmente confermato la stima iniziale, portando il numero delle vittime a 471. Secondo una indagine preliminare dell’intelligence americana i morti sono fra 100 e 300, una forchetta estremamente ampia che riflette le difficoltà nel reperire informazioni affidabili anche per gli apparati di sicurezza più potenti della storia umana.  

Nonostante Israele e gli Stati Uniti avessero già detto, portando alcuni dati preliminari (a loro volta da verificare), che l’esplosione era stata causata da un razzo della Jihad palestinese accidentalmente finito sull’ospedale, il ministero della Salute di Gaza ha continuato a dire che è stato un raid israeliano.

Entità indefinibile

Che cos’è il ministero della Salute di Gaza? Si tratta di un organo nato nel 2007 dopo che Hamas ha preso il potere nella Striscia. Prima di quella data Gaza era stata sotto l’occupazione israeliana e il ministero della Salute di riferimento per la Palestina era quello di base in Cisgiordania, al quale poi il gruppo terroristico ha affiancato una struttura parallela per la Striscia. 

Il ministero è guidato da un ministro fantasma. Mufiz al Makhalalati è formalmente il titolare della struttura dal 2009, quando ha rimpiazzato Basem Naim, ma su di lui ci sono poche notizie e nel sito ufficiale del ministero non compare il suo nome.

Le figure chiave sono il viceministro Yousef Abu Al Rish, che spesso è citato nelle interviste e guida le conferenze stampa, e il direttore generale Medhat Abbas, talvolta indicato dai media come portavoce del ministero.

Secondo le informazioni che il ministero stesso offre, la struttura dell’organizzazione è estremamente snella e le sue capacità di azione appaiono molto limitate. I documenti che produce sono curati in modo scientifico, ma sono anche zeppi di invettive sull’occupazione israeliana e presentano nessi causali fra questa e il deterioramento delle condizioni di sanità pubblica della zona. 

Nel report sullo stato del sistema sanitario pubblicato nel 2022 si dice che il ministero controlla soltanto 13 dei 35 ospedali attivi nella Striscia; 17 sono guidati da ong, 2 fanno capo al ministero dell’Interno, 3 sono privati.

In altre parole, meno della metà delle strutture sanitarie dell’area dipende da un ministero che però pretende di dare aggiornamenti in tempo reale sul numero delle vittime e che in venti minuti ha stabilito dinamica, responsabilità e numero di morti dell’esplosione.

Anche sulla credibilità del ministero c’è almeno qualche ombra. La settimana scorsa Unrwa, l’agenzia dell’Onu per i rifugiati palestinesi, ha accusato via X, già Twitter, il ministero di avere rubato carburante ed equipaggiamento medico da un magazzino dell’agenzia. La Unrwa ha poi cancellato il tweet e si è rimangiata l’accusa: «Non c’è stato nessun furto nei nostri magazzini nella Striscia».

Alcuni, fra cui il giornalista di Axios Barak Ravid, una macchina da scoop sulla sicurezza israeliana con pochi eguali, dicono però che le fonti dell’agenzia confermano che in realtà il furto c’è stato: uomini senza divisa avrebbero manomesso le telecamere di sicurezza e forzato l’ingresso dell’edificio, caricando la benzina e il materiale medico su camion riconducibili al ministero della Sanità.

È prudente dubitare delle informazioni che fornisce Israele sulla guerra. Ma conviene ricordare anche di chi ci stiamo fidando ogni volta che citiamo il numero delle vittime di Gaza.

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