Le atrocità compiute in Ucraina dopo l’aggressione della Russia sono tali che la qualificazione delle stesse sul piano del diritto può sembrare un inutile esercizio teorico. Ma la definizione giuridica dei crimini commessi - aggressione, crimini di guerra, crimini contro l’umanità, genocidio - costituisce oggetto dell’attività della Corte Penale Internazionale (CPI).

Di genocidio, in particolare, ha più volte parlato il leader ucraino, Volodymyr Zelensky, nonché il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, mentre il presidente francese, Emmanuel Macron, ha suggerito maggiore prudenza nell’uso di questo termine. Quindi, è utile sapere di cosa si parla quando si parla di genocidio.

Il genocidio

Il termine “genocidio” (dal greco “γένος”, «stirpe», e dal latino “caedo” «uccidere») è stato coniato dall’avvocato ebreo polacco Raphael Lemkin nel 1944, a seguito dello sterminio degli Armeni da parte dell’Impero Ottomano nel 1915-16. Solo dopo lo sterminio degli ebrei da parte dai nazisti durante la Seconda guerra mondiale e l’istituzione del Tribunale di Norimberga la parola genocidio ha assunto un significato giuridico, anche se lo Statuto di Londra, istitutivo del Tribunale, non prevedeva tale crimine. Il suo riconoscimento è avvenuto con la “Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio”, adottata dall’Onu nel 1948 ed entrata in vigore nel 1951.

«Per genocidio si intende ciascuno dei seguenti atti, commessi con l'intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso come tale: (a) uccisione di membri del gruppo; (b) lesioni gravi all'integrità fisica o mentale di membri del gruppo; (c) il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale; (d) misure miranti a impedire nascite all'interno del gruppo; (e) trasferimento forzato di bambini da un gruppo ad un altro» (art. 2). Il genocidio è un crimine di diritto internazionale «sia che venga commesso in tempo di pace sia che venga commesso in tempo di guerra» (art. 1). La definizione della Convenzione è stata riprodotta in modo identico nello Statuto del Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia (TPIY, art. 4), nello Statuto del Tribunale penale internazionale per il Ruanda (TPIR, art. 2), nello Statuto di Roma della Corte penale internazionale (CPI, art. 6).

Nella sentenza Akayesu del 1998, relativa al genocidio in Ruanda, che rappresenta la prima condanna per questo crimine, il Tribunale penale internazionale ha affermato che per concretarlo non serve «l'effettivo sterminio del gruppo nella sua interezza»: basta che sia commesso uno qualsiasi degli atti elencati nella Convenzione, con il preciso intento di distruggere il gruppo «in tutto o in parte» (TPIR, Prosecutor v. Akayesu, Case No. ICTR-96-4-T, § 497). L’atto deve essere stato compiuto nei confronti di persone in quanto «membri di un gruppo specifico, e specificamente perché appartenenti a questo gruppo. Pertanto, la vittima viene scelta non per la sua identità individuale, ma per la sua appartenenza a un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso». Ciò significa che «la vittima del reato di genocidio è il gruppo stesso e non solo l'individuo» (§ 521).

L’intento genocidario

Il crimine di genocidio si caratterizza per la presenza di un “intento specifico” (dolo speciale): quello di distruggere un gruppo tutelato. Come osservato durante i lavori preparatori della Convenzione, se non viene comprovato tale intento, «qualunque sia il grado di atrocità di un atto e per quanto simile possa essere agli atti descritti nella convenzione, quell'atto non può essere definito genocidio» (TPIR, Case No. ICTR-96-4-T, § 519).

L’intento di commettere questo crimine (genocidal intent) può essere «difficile, se non impossibile da accertare», come si osserva nella citata sentenza Akayesu. Tuttavia, «in assenza di una confessione dell'imputato», tale intento può essere dedotto da alcune presunzioni di fatto: dal «prendere di mira deliberatamente e sistematicamente le vittime a causa della loro appartenenza a un determinato gruppo, escludendo i membri di altri gruppi», alla «entità delle atrocità commesse» (TPIR, Case No. ICTR-96-4-T, § 523). Anche lo stupro, la violenza sessuale e altre forme di aggressione a sfondo sessuale costituiscono atti di genocidio, quando perpetrati con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo di persone (§ 733).

Secondo la Camera preliminare del Tribunale penale internazionale per l'ex Jugoslavia, l’intento specifico di compiere un genocidio può evincersi anche «dall'effetto combinato di discorsi o progetti che pongono le basi e giustificano gli atti, dalla vastità del loro effetto distruttivo e dalla loro specificità, che mira a minare quello che è considerato il fondamento del gruppo» (Prosecutor v. Mladic and Karadsic , Case No. IT-95-5-R61). Anche l'esistenza di un piano o di una politica può facilitare la prova del reato (TPIY, Prosecutor v. Jelisic, Case No. IT-95-10-A, § 48).

Nella valutazione dell’esistenza di un intento genocidario, secondo la giurisprudenza del Tribunale per l’ex Jugoslavia possono assumere rilievo altri due aspetti: la dimensione quantitativa del crimine e la sua estensione geografica. Quanto al primo, l’intento può ravvisarsi non solo nella volontà di distruzione “massiccia” del gruppo stesso, colpendo un numero molto elevato di membri, ma anche nella volontà di eliminare un numero più limitato di persone, selezionate in ragione dell’impatto che la loro scomparsa avrebbe sul gruppo protetto (TPIY, Prosecutor v. Jelisic, Case No. IT-95-10-T, § 82). Quanto al secondo profilo, l’intento genocidario può anche concretizzarsi nel proposito di distruggere un gruppo che si trovi in una circoscritta zona geografica (§ 83).

La Russia e il genocidio

La CPI dovrà verificare se i reati commessi dalla Russia concretino anche genocidio, oltre che crimini di guerra e crimini contro l’umanità.

Andranno valutati, tra l’altro, i discorsi di Putin che giustificano l'invasione, qualificando gli ucraini come neo-nazisti e tossicodipendenti e prefiggendosi di denazificare il paese; gli articoli dei giornali russi, come quello dell'agenzia statale russa Ria Novosti dopo l'eccidio di Bucha, intitolato “Cosa la Russia dovrebbe fare con l'Ucraina”, ove si dice che de-nazificare comporta inevitabilmente la de-ucrainizzazione, che «un paese denazificato non può essere sovrano», che «i termini della denazificazione non possono in alcun modo essere inferiori a una generazione, che deve nascere, crescere e raggiungere la maturità nelle condizioni della denazificazione»; che la popolazione ucraina dovrà sottostare a un processo di «rieducazione», da attuarsi «anche necessariamente nell'ambito della cultura e dell'istruzione».

La CPI sta raccogliendo e valutando prove sin dai primi giorni del conflitto. Il procedimento non sarà breve, ma le imputazioni sono di enorme importanza. Se il diritto ancora conta, anche in tempo di guerra.

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