Criticare Joe Biden è lo sport più facile del mondo. Lo praticano tutti, da Benjamin Netanyahu alla corrente radicale del Partito democratico americano, e gli indicatori sulla popolarità sono impietosi nel mostrare la crisi del presidente americano, che è pericolosamente incalzato da Donald Trump nei sondaggi. Il fatto che nelle apparizioni pubbliche appaia spesso confuso e disorientato non aiuta. 

I critici di Biden ora potranno usare anche l’incontro con Xi Jinping a San Francisco come ulteriore prova della sua debolezza politica.

I consiglieri diplomatici dell’amministrazione avevano fatto di tutto per tenere basse le aspettative in vista del vertice, e avevano ragione: a conti fatti, le due potenze globali si sono accordate soltanto sul controllo dei componenti con cui si produce il fentanyl e sulla regolamentazione delle  comunicazioni militari. 

Sulla prima questione la Cina aveva già fatto (e tradito) le stesse promesse, la seconda è soltanto la base di qualunque possibile comunicazione fra i due eserciti. Non si è parlato di intelligenza artificiale, di microchip, di testate nucleari e non si è entrati nel merito della questione di Taiwan, l’epocale rogna che catalizza tutti i problemi sull’asse Washington-Pechino.

Per un giudizio equanime dell’operato di Biden occorre però mettere le cose in prospettiva. Dal suo insediamento alla Casa Bianca, nel gennaio del 2021, il presidente si è trovato incalzato da una serie di crisi epocali e costretto a prendersi cura di uno stormo di cigni neri che ha sfidato le leggi della probabilità. 

La pandemia, la guerra in Ucraina, infine l’attacco di Hamas del 7 ottobre e la conseguente guerra a Gaza. Sullo sfondo, la crescente assertività della Cina di Xi Jinping, impegnato nel tentativo di diventare il grande leader del sud globale. 

Nel clamoroso disordine globale che si è trovato di fronte, Biden è rimasto un attore razionale. E già questo non è poco.

Ha affrontato gli effetti della pandemia proponendo il più grande piano di spesa pubblica e di riforma del welfare dai tempi del New Deal, cercando di trasformare la crisi contingente in un’opportunità di cambiamento strutturale del sistema. Il progetto è stato annacquato dai suoi stessi compagni di partito, ma non si può dire che il tentativo non sia stato fatto.

Sull’Ucraina ha mantenuto una posizione di assoluta chiarezza politica, fornendo a Kiev – a spese del contribuente americano – tutto ciò che era necessario per difendersi dall’aggressione della Russia di Vladimir Putin e per contrattaccare. Ha propiziato l’allargamento della Nato e stretto ulteriormente i rapporti con i membri dell’Europa orientale minacciati da Mosca.

Dopo il terrificante attentato eseguito da Hamas – ma finanziato e applaudito da altri malintenzionati attori della regione, primo fra tutti l’Iran – ha sostenuto l’alleato israeliano ma ha da subito cercato di mettere “sotto tutela” il governo dello screditato Netanyahu, usando il potere della diplomazia e della persuasione per cercare di perimetrare gli istinti vendicativi. Un successo solo a metà, ma non  si può dire che non abbia tentato e non stia tentando di agire in funzione di equilibrio.

Dopo l’incontro non trionfale con Xi a San Francisco ha detto che la Cina e gli Stati Uniti sono in un «rapporto competitivo», ma «la mia responsabilità è renderlo razionale e gestibile, in modo che non sfoci in un conflitto». 

Lavorare per rendere razionale e gestibile un mondo di conflitti irrazionali e ingestibili è la realistica missione del leader del mondo libero, date le amare circostanze che stiamo attraversando. Non è una missione da poco. Trump non è minimamente attrezzato per affrontarla, per dire.

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