Nella piazza di Raqqa dove l’Isis impalava le teste dei suoi avversari, i negozi hanno appena rialzato le serrande. Hell Square, come era stata soprannominata negli anni della dominazione jihadista, è stata in lockdown insieme al resto dell’ex “capitale” dello Stato islamico fino allo scorso 5 dicembre. Come nelle nostre zone rosse le uniche attività permesse erano quelle essenziali e uscire dalla propria abitazione era teoricamente proibito.

Ma tra i palazzi del centro non è raro vedere appartamenti sventrati dalle bombe della coalizione a guida americana con i panni appesi in stanze senza più il soffitto. E quando la casa è inabitabile o semi-inabitabile è difficile convincere la gente a chiudercisi dentro. Secondo l’Onu nell’ottobre 2017 l’offensiva curdo-araba appoggiata dai raid della coalizione aveva distrutto circa il 70 per cento di questa Dresda mediorientale. Tre anni dopo, anche a causa delle sanzioni sulla Siria che bloccano i finanziamenti stranieri per la ricostruzione, le macerie invadono ancora le strade.

Per la grandissima maggioranza della popolazione, il Covid è l’ultimo dei problemi. Ma i contagi crescono e il rischio che il virus diventi una piaga insostenibile è alto. Per questo l’Amministrazione autonoma della Siria del nord est (Aanes), nota informalmente come Rojava, ha deciso di imporre il coprifuoco totale o parziale su tutte le principali città della regione per dieci giorni.

«È una situazione assurda», commenta un venditore di pane fuori dall’ospedale centrale di Raqqa, «la gente deve stare attenta alle bombe trappola lasciate dall’Isis, ai militari del regime lontani pochi chilometri dalla città e ai palazzi in rovina. Il Covid è l’ultimo dei loro pensieri». Difficile dargli torto.

Nessuna prevenzione

Per le strade è raro vedere mascherine, solo qualche agente di polizia la indossa pro forma. Negli stessi ospedali capita di vedere medici e infermieri senza. Ma l’indifferenza della gente rischia di ingigantire un problema che si sta aggiungendo con prepotenza alla lunga lista di criticità che attanagliano Raqqa e tutto il nord est della Siria.

Negli ultimi mesi la regione controllata dall’amministrazione a maggioranza curda ha visto un boom di casi preoccupante, tanto più se si considerano le difficoltà di approvvigionamenti di dispositivi di protezione personale, di medicine, di attrezzature per le terapie intensive e soprattutto la carenza di personale medico preparato a fronteggiare l’epidemia. A luglio il veto russo-cinese ha annullato la proroga della risoluzione 2.504 dell’Onu – che negli ultimi sei anni aveva consentito l’ingresso di aiuti umanitari in nord est Siria – compromettendo l’arrivo dei medicinali necessari.

Al 28 novembre ci sono stati 6.899 casi confermati di Covid-19 (a fine settembre erano poco più di 1.600), su una popolazione di circa 3 milioni di abitanti. I ricoveri sono stati 1.014 e le morti 196. Cifre che non mostrano il reale quadro della situazione pandemica: la capacità di monitoraggio è molto limitata a causa della scarsa consapevolezza dei rischi nella popolazione e della carenza cronica di tamponi. Un dato su tutti: il 42 per cento dei test effettuati è risultato positivo.

A Raqqa i numeri sono altrettanto preoccupanti. A partire da inizio agosto, quando è cominciato il monitoraggio dell’epidemia in città, sono stati registrati 764 casi positivi su 1.421 tamponi realizzati, con un’incidenza di quasi il 54 per cento. Le morti accertate sono state 99.

«Riteniamo che il numero reale di attualmente positivi si aggiri intorno alle 4-5mila persone», spiega Kassar Al Ali, capo del Committee of Health di Raqqa (il dipartimento dipendente dal governo del Rojava che gestisce la sanità pubblica), «anche quando accusano i sintomi, molti li nascondono e non si fanno visitare, hanno paura del giudizio della gente o pensano che venire in ospedale sia pericoloso. Sanno solo della gente che muore in ospedale, e quindi sono convinti che sia un posto in cui si muore. Quando poi arrivano, spesso la malattia è in uno stadio troppo avanzato per poter intervenire con successo».

Polizia nelle strade

È in queste condizioni, e con il rischio di un’esplosione dei contagi, che l’amministrazione ha deciso di imporre un lockdown totale dal 26 novembre al 5 dicembre, nelle città di Raqqa, Hassake, Qamishli e Tabqa, e un lockdown parziale a Manbij, Derek e Kobane. In alcune di queste città erano già stati fatti tentativi di limitare le occasioni di socialità, ma con poche pretese e scarsi risultati. Con questo secondo giro il governo ha deciso di usare il pugno duro.

L’Asayish (come è chiamata in curdo la polizia), è stata schierata per le strade con l’ordine di controllare che i negozi fossero chiusi e di mandare a casa la gente che non aveva motivo di stare in giro. Il primo incarico è stato rispettato alla lettera: nelle strade del centro di Raqqa, tra una casa franata e l’altra, le serrande dei negozi sono state quasi tutte abbassate. Tenere a casa le persone, però, è stato un compito più difficile.

Diversi i “validi motivi” per uscire da abitazioni distrutte e con il minimo dei servizi accessibili. Ai checkpoint sparsi per la città l’Asayish ha provato a dire a chi passava di tornare a casa, ma con poca convinzione. Non c’era molto altro da fare. «Difficile multare chi spesso non ha i soldi per vivere dignitosamente», spiega ancora il dottor Al Ali, «e chi ha un po’ di denaro spesso è riuscito a ottenere il permesso per circolare in altre maniere. Ma tra i negozi chiusi e il numero di persone in giro, direi che la risposta complessiva è stata buona».

Il sacrificio chiesto alla popolazione è stato enorme. La maggior parte dei lavoratori guadagna a giornata e se sta a casa non mette in tasca niente. Non esiste nessun tipo di sussidio pubblico, escluso l’aiuto delle associazioni benefiche locali, che attraverso la carità distribuiscono cibo e beni di prima necessità ai più poveri. Finito il richiamo alla preghiera del pomeriggio, i muezzin dai minareti hanno chiesto alla gente di stare a casa e di non andare in moschea. Sui muri e sui pali della luce l’amministrazione ha fatto affiggere cartelloni e avvisi per sensibilizzare la popolazione ai pericoli del coronavirus.

Il lavoro delle ong

Tareq (per ragioni di sicurezza il suo vero nome non può essere riportato) è nato e cresciuto a Raqqa ed è il local medical advisor di “Un Ponte Per” (Upp), l’unica ong italiana presente nel nord est della Siria. È seduto di fronte al piano terra dell’ospedale Hilal, dove Upp gestisce insieme alla Mezzaluna rossa curda (Kurdistan red crescent, Krc) un reparto di maternità e uno di pediatria. Il primo e il secondo piano portano ancora evidenti i segni della battaglia del 2017 e sono inutilizzabili. Poco lontano, in un’ala dell’ospedale centrale, le due organizzazioni collaborano in un centro Covid per i casi meno gravi.

Insieme a Krc, Upp è riuscita a inaugurare altri tre reparti Covid nel Rojava, nelle città di Derek, Tabqa e in una scuola di Manbij riconvertita a clinica e sta lavorando per aprire un quarto presidio in un ospedale di Manbij. In totale saranno garantiti 180 posti letto per pazienti moderati e gravi. L’ong ha inoltre attivato una hotline per fornire aiuto a domicilio a chiunque abbia sintomi ascrivibili al Covid: i medici che arrivano a casa fanno il tampone e valutano le condizioni del paziente per decidere se può rimanere isolato o se deve essere trasportato in ospedale.

«All’inizio la gente non credeva nel virus e i primi tentativi di limitare la socialità non hanno funzionato», dice Tareq, «poi quando qualcuno ha iniziato ad ammalarsi la gente ha iniziato a capire, ma le loro priorità sono comunque altre». I responsabili locali della Krc, seduti al suo fianco, spiegano che non è solo l’indifferenza verso i rischi della malattia a complicare la situazione: «Alcuni nascondono la malattia come una sorta di tabù, nascondono i sintomi e addirittura cercano di farsi vedere in giro per dimostrare a tutti che sono sani. Altri addirittura sono convinti che andare in ospedale sia pericoloso perché pensano che chi ci va muore. Quando poi sono costretti a chiedere aiuto, la malattia è già in uno stadio irreversibile. Riteniamo che molta gente stia morendo a casa, senza rientrare nel conteggio ufficiale».

I rumors dei “pericoli” degli ospedali si rincorrono in tutta la regione: la storia più comune parla di “iniezioni letali” effettuate a tradimento sui pazienti. In queste condizioni, diffondere la consapevolezza nella popolazione dei pericoli del virus rischia di essere una missione impossibile. All’interno del centro Covid dell’ospedale di Raqqa, l’infermiere di guardia indossa tutti i dispositivi di protezione personale. Ma l’addetta alle pulizie non ha nient’altro che la mascherina. Spetta a Chiara M., medical advisor di Upp nel nord est della Siria, ricordare con fatica all’infermiere che tutti all’interno del reparto devono indossare le protezioni adeguate.

«Nonostante i numeri ufficiali non siano ancora alti, la diffusione dell’epidemia è chiaramente fuori controllo. La maggior parte delle persone sa cos’è il Covid, ma per loro non rappresenta un problema, o almeno non uno più grande di quelli che già hanno», spiega Chiara, «se si aggiunge lo stigma sociale, i rumors e un sistema sanitario fragilissimo si capisce perché la battaglia contro il Covid qui si combatte ad armi impari. A volte è come svuotare l’oceano con il cucchiaino e mi sembra che sia tutto inutile. Poi però vado in ospedale, vedo i pazienti dimessi che vanno a casa contenti, incontro lo staff che lavora senza sosta e penso che no, proprio tutto inutile non è».

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