L’editoriale del New York Times di domenica scorsa sintetizza efficacemente quel che ci si dovrebbe aspettare da Israele: «Israele ha l’obbligo verso i suoi cittadini di far sì che gli autori di questa violenza ne risponderano, ma come ha detto questa settimana il segretario di Stato Antony Blinken, “il modo in cui Israele lo fa è importante”.

Israele non può vincere questa guerra solo uccidendo tutti i terroristi. È determinato a spezzare il potere di Hamas e in questo sforzo merita il sostegno degli Stati Uniti e del resto del mondo. Ma può riuscirci solo sostenendo quelle regole e quelle norme di comportamento che Hamas ignora volutamente. Ciò per cui Israele sta combattendo è la difesa di una società che valorizza la vita umana e lo stato di diritto. Per farlo, i mezzi e i fini della sua risposta militare devono essere coerenti».

La coerenza dei mezzi e dei fini è la regola che distingue la guerra dal delitto. Ed è la cornice dentro la quale i discorsi e i comportamenti di chi ha potere di decisione e di comunicazione dovrebbero stare. L’arte della distinzione è una sicura regola di saggezza, soprattutto quando le ragioni del fondamentalismo premono per farsi strada. Distinguere tra guerra e vendetta, tra terroristi ed eserciti, tra militari e civili. Oggi non è facile ma è imperativo.

Sono per questo ingiustificabili e dannose le forme di intolleranza verso chi esprime sostegno al popolo della Striscia di Gaza che si susseguono ogni giorno nei nostri paesi. Fanno un pessimo servizio alla pace, e alla causa del popolo di Israele, che non deve essere isolato dall’umanità dispensandolo dagli obblighi che l’essere parte dell’umanità impone. La salvezza di Israele è la sua sicura ed eguale appartenenza al consesso delle nazioni, secondo i vincoli che si sono dati.

«L’obiettivo di Israele è distruggere Hamas; nel farlo, non dovrebbe perdere di vista il suo impegno a salvaguardare coloro che non hanno preso le armi», scrive il New York Times. Ovvero: non si deve usare il criterio dell’eccezione. Un criterio che nei secoli ha danneggiato il popolo ebraico fino a volerlo estinguere.

Per questo, la decisione di annullare l’assegnazione di un premio letterario, già deciso, a un’autrice palestinese o di cancellare un impegno artistico con un autore, magari ebreo, critico delle decisioni del primo ministro Benjamin Netanyahu, sono quel che si dovrebbe evitare se si vuole aiutare la causa del popolo di Israele, la quale è legata senza interruzione di continuità a quella del popolo palestinese.

Opinioni radicalizzate

Hamas è il peggiore nemico della causa palestinese e la radicalizzazione delle opinioni alla quale stiano assistendo in diversi paesi europei è improvvida, anche perché agevola e quasi suggella l’identificazione tra il terrorismo jihadista e la causa del popolo palestinese.

Con il paradosso per cui leader di destra che hanno nelle loro radici l’antisemitismo (e fino a pochi mesi fa usavano aggettivi come “usuraio” e “circonciso” per criticare avversari di origine ebraica) oggi sono oltranzisti all’opposto, ma con la stessa logica binaria del nemico totale. Per opportunismo.

Lo sforzo dovrebbe essere quello di sentire il peso dell’orrore che si consuma dal 7 ottobre scorso ma per evitare che esso abbia il monopolio sul futuro. Il Talmud ci offre una massima di saggezza: «Non lasciatevi scoraggiare dall’enormità del dolore del mondo.

Fate la giustizia ora, amate la misericordia ora, camminate umilmente ora. Non siete obbligati a completare l’opera, ma non siete nemmeno liberi di abbandonarla».

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