Il 25 settembre prossimo l’Italia andrà al voto in una fase critica della storia mondiale: un momento in cui paiono in discussione gli allineamenti internazionali e si combatte una guerra tra i due stati territorialmente più estesi d’Europa.

La politica estera non sembra essere tra i temi più discussi di questa campagna elettorale, eppure quanto accade nel nostro paese è sotto attento monitoraggio da parte delle maggiori potenze e dei nostri partner comunitari.

Il conflitto russo-ucraino sta avendo vaste ripercussioni, anche perché ha acquisito rapidamente un’importante dimensione economica, che sta avendo significativi riflessi sui prezzi delle materie prime. Non è l’unico fattore ad alimentare la risorgente inflazione, pesano infatti anche le ingenti immissioni di liquidità fatte dalla Fed americana e dalla nostra Bce per arginare lo shock esogeno prodotto dalla pandemia, ma è quello del quale si parla di più.

Il sostegno politico e militare agli ucraini viene identificato da coloro che in Europa avvertono le conseguenze più serie dei rincari come la causa del proprio disagio e cresce la pressione in favore della revisione delle sanzioni imposte contro la Russia.

Il rischio di una frammentazione su basi economiche della solidarietà transatlantica era implicito fin dall’inizio della guerra in corso all’est, data la differente dipendenza di Europa e Stati Uniti dall’interscambio con Mosca, ma è ora percepito più nitidamente anche a Washington, come prova la recente sortita di Edward Luttwak, che ha chiesto il superamento dello schema sanzionatorio per concentrare l’occidente sui soli aiuti militari. Non è detto che funzioni, naturalmente, ma il clima è questo.

È pertanto ovvio che il risultato delle prossime elezioni e soprattutto dei negoziati che serviranno a formare il futuro governo interesserà molto i nostri alleati. È in questa prospettiva che vanno valutati tanto l’eredità geopolitica di Mario Draghi quanto il suo ruolo nella legislatura che verrà.

La linea sul conflitto

È importante fare qualche passo a ritroso nel tempo. Innanzitutto, la nomina di Draghi – banchiere di formazione anglosassone – alla testa dell’istituto di emissione europeo fu in parte il risultato di una convergenza d’intenti tra gli Stati Uniti di Barack Obama e la Germania di Angela Merkel. Nessuno, quindi, più del premier uscente incarna in Italia la continuità con le scelte fondanti della politica estera repubblicana in favore dell’integrazione comunitaria e dell’atlantismo.

Draghi le ha interpretate con flessibilità e intelligenza lungo tutto il corso del proprio mandato, in modo congeniale anche alla sua formazione di estrazione gesuitica, di cui sono un tratto distintivo la ricerca del dialogo e la comprensione delle ragioni di ogni interlocutore.

Il presidente del Consiglio uscente aveva certamente intuito quali implicazioni avrebbe avuto per la salute delle economie europee e della stessa divisa unica lo scoppio di un conflitto di maggiori proporzioni nel nostro continente e aveva fatto del suo meglio per scongiurarlo.

Il 22 dicembre scorso nella sua conferenza stampa di fine anno, rispondendo a una specifica domanda sull’argomento, Draghi si era spinto ad affermare che occorresse mantenere il presidente Putin «in stato di ingaggio» e proprio il 24 febbraio avrebbe dovuto recarsi in visita a Mosca.

Inoltre, sotto la sua guida, l’Italia aveva reso noto, tramite la Farnesina, che il nostro paese aderiva al principio cosiddetto della “porta aperta”, in base al quale ciascun paese ha diritto di scegliere liberamente con chi allearsi, ma anche che Roma avrebbe tenuto conto di quanto è previsto dall’articolo 10 del patto Atlantico, che fa dipendere l’accessione di nuovi membri alla valutazione di ciò che ciascuno è in grado di dare alla sicurezza collettiva dell’Alleanza. Una posizione astuta, con la quale si era cercato di imbastire una difficile mediazione.

La circostanza aveva suscitato molta attenzione all’estero, ma anche qualche preoccupazione oltreatlantico, come se il nostro paese e Draghi in particolare fossero sul punto di defezionare. Il successo della linea dipendeva in realtà dall’effettiva volontà russa di trattare e alla fine è stato compromesso dalla decisione di attaccare, presa da Mosca.

A quel punto, tuttavia, non ci sono state esitazioni. L’Italia si è schierata dal lato dell’Ucraina e Draghi in particolare ha dato un contributo d’alto profilo all’ideazione delle misure ritorsive che maggiormente hanno danneggiato nell’immediato gli interessi economici della federazione Russa.

In un discorso tenuto il 1° marzo scorso al Senato, il presidente del Consiglio uscente ha fatto anche alcune interessanti considerazioni, il cui senso era questo: tutti possono sbagliare, il passato non contava più, rilevavano invece il presente e soprattutto il futuro. Un passaggio che i più avevano ritenuto diretto all’interno, verso alcuni dei partiti che lo sostenevano, ma che più probabilmente aveva anche destinatari esterni.

Scelte chiare

È da questo equilibrio che occorre ripartire. È evidente che l’Italia soffre particolarmente le conseguenze della guerra che sta devastando l’Ucraina, ma il messaggio che Draghi sta lanciando è che non è possibile unilateralmente sfilarsi dalle sanzioni senza pagare un prezzo molto alto.

Il debito pubblico della Repubblica italiana sta viaggiando verso il poco invidiabile traguardo dei 3mila miliardi di euro. Atteso che non disponiamo di una banca centrale che sia disposta a finanziarlo a pie’ di lista, esiste una dipendenza del nostro paese dai mercati finanziari internazionali che non si può ignorare.

Non si tratta di entità astratte. Ne fanno parte anche i risparmiatori italiani che sottoscrivono i titoli direttamente o tramite la propria banca di fiducia. Per sopravvivere, il nostro stato ha bisogno di una buona reputazione, che si costruisce giorno dopo giorno attraverso scelte chiare e comprensibili, tra le quali quelle di politica estera sono tra le più importanti.

Alla determinazione del merito di credito, di fatto, concorre anche la grande stampa internazionale, un dato di cui Mario Draghi è sempre stato consapevole. È per questo motivo che sul posizionamento del nostro paese non dovrebbe sussistere alcuna ambiguità. È in fondo proprio questo ciò che il premier ha voluto ricordare al recente meeting di Rimini.

Eredità inevitabile

Quanto precede ha chiare implicazioni: il governo che nascerà dopo le prossime elezioni non potrà non avere una maggioranza che condivida i tratti fondamentali della politica estera del nostro paese com’è stata definita a partire dal 1948.

Di tale circostanza pare essersi accorta anche Giorgia Meloni, che guida il partito accreditato attualmente del più alto numero di preferenze tra gli elettori italiani e non a caso dialoga con Draghi. Su queste basi, Rino Formica ha individuato per il premier uscente un ruolo futuro da “lord protettore”, formula ad effetto che allude a una funzione di garanzia che Draghi dovrebbe svolgere presso i nostri interlocutori, per conto di chi governerà.

Ma è davvero possibile che l’ex banchiere centrale europeo possa onorare una missione tanto delicata senza essere coinvolto in prima persona nelle vicende politiche che si dipaneranno di qui a qualche settimana? Come farà Draghi a farsi garante dell’Italia senza trovarsi direttamente al governo? Tutto questo, naturalmente, rinvia a valutazioni che non possono essere anticipate oggi, dipendendo dai risultati delle elezioni e dal modo in cui i nostri partner maggiori e i mercati internazionali reagiranno ai successivi sviluppi.

In caso di tempesta, servirà un parafulmine alto. Qualsiasi coalizione che non sia cementata da un atlantismo certo e da un europeismo solido, non necessariamente passivo nella difesa dell’interesse nazionale, sarà intrinsecamente fragile. Proprio per questo motivo, l’elenco delle coalizioni possibili dopo il voto è più ampio di quello che gli elettori si troveranno sulle schede.

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