L’esecutivo guidato da Mario Draghi ha dovuto affrontare numerosi episodi che hanno riguardato in maniera molto stretta la dimensione della difesa, tra i quali il ritiro frettoloso della Nato e degli Usa dall’Afghanistan e l’offensiva russa in Ucraina. Se il primo evento è stato letto dagli europei come un invito a dotarsi di una difesa più significativa, il secondo ha conferito una nuova centralità alla garanzia militare della Nato sul continente europeo.

Qual è stata la reazione dell’esecutivo guidato Draghi? Quali sono gli elementi principali che hanno caratterizzato la politica di difesa dell’ultimo governo italiano?  

Priorità mediterranea

Uno dei principali elementi che permettono di distinguere i tratti principali della politica di difesa perseguita dallo scorso governo è quello dell’impiego delle nostre forze armate. Come già notato dal professor Coticchia, il governo Draghi ha accelerato il processo di ri-orientamento strategico della proiezione militare italiana verso un quadrante strategico che la Difesa è solita definire mediterraneo allargato, riferendosi a un’area che va dal medio oriente e golfo arabico fino al golfo di Guinea, percorrendo tutta la fascia del sub-Sahara attraverso il Sahel.

Il cambio di priorità della politica di difesa italiana era stato formalmente inaugurato nel 2015, quando la centralità di questa strategica area di interesse veniva sancita nel Libro bianco per la sicurezza internazionale e la difesa. L’accelerazione imposta da Draghi è divenuta evidente nella scelta di rafforzare il dispositivo militare italiano schierato in questo quadrante, in maniera particolare in Iraq, con l’assunzione del comando dell’operazione Nato, e soprattutto con il lancio di nuove importanti operazioni, come l’invio di un contingente di forze speciali a supporto dei francesi in Mali, il contributo al dispositivo navale a guida francese nello Stretto di Hormuz e la più recente operazione di supporto alle forze armate del Qatar in occasione dei prossimi mondiali di calcio.

La salienza del mediterraneo allargato nella politica di difesa italiana è divenuta ancora più evidente nel giugno di quest’anno, quando il ministro della Difesa Lorenzo Guerini ha annunciato la pubblicazione di una nuova “Strategia di sicurezza e difesa per il mediterraneo”, all’interno della quale vengono sancite le priorità di palazzo Baracchini in questo strategico quadrante.

Operazione “Strade sicure”

Per quanto riguarda l’impiego di forze armate sul suolo domestico, invece, l’esecutivo ha imposto un importante elemento di discontinuità rispetto ai governi precedenti, scegliendo di avviare la progressiva riduzione del dispositivo impiegato nell’operazione “strade sicure”, che da diversi anni coinvolge annualmente quasi la metà della componente operativa dell’esercito italiano.

Sebbene l’operazione non rivesta più carattere di urgenza, a partire dal 2008 essa è stata costantemente prorogata e ha richiesto un numero sempre maggiore di uomini. La scelta annunciata da Guerini a metà aprile ha incontrato notevoli opposizioni da esponenti di molte formazioni politiche, a dimostrazione di un consenso quasi bipartisan da parte della politica italiana nei confronti dell’impiego domestico dello strumento militare.

Investimenti militari

Riguardo al bilancio, l’esecutivo si è posto in sostanziale continuità con quanto fatto dai governi italiani a partire ormai già dal 2019, aumentando le spese dedicate alla funzione difesa – ciò che rimane del budget una volta sottratti i fondi dedicati ai carabinieri – di circa 2,8 miliardi in due anni, la maggior parte dei quali dedicati alle spese per l’investimento, che tra il 2020 e il 2022 hanno raggiunto i 5,4 miliardi di euro, pari a un incremento del 43,6 per cento tra il 2020 e il 2021 e del 34 per cento tra il 2021 e il 2022.

Tra tutti quelli stanziati dalla Difesa, due investimenti rivestono particolare interesse. Il primo è l’acquisto di materiale d’armamento per i droni dell’aeronautica militare, una scelta alquanto rilevante, data la grande opposizione che questa scelta ha incontrato nel nostro paese negli scorsi anni. Il secondo è la scelta di dotare le unità navali della marina militare di missili land-attack, che la marina auspicava da tempo, e che consente l’ingaggio da lunga distanza di obiettivi terrestri da parte delle nostre navi.

Il ministro Guerini ha poi dato ulteriore linfa agli investimenti militari e al dialogo tra difesa e industria tramite due importanti iniziative: l’emanazione di una direttiva di politica industriale della difesa, un documento che dovrebbe delineare gli obiettivi che il dicastero deve perseguire per fungere da indirizzo e propulsore dell’industria della difesa; la sigla del primo accordo governo-governo (G2G) della Difesa, una tipologia di accordo che facilita notevolmente la compravendita di materiale d’armamento.

Politica del personale

Un ulteriore elemento di interesse che si può analizzare studiando il bilancio è la politica del personale. Le forze armate italiane soffrono da anni di due importanti problemi: il primo è la sproporzione delle spese a favore del personale, che sfiorano il 70 per cento del bilancio della difesa, sottraendo spazio all’investimento e soprattutto all’esercizio; il secondo è un’età media eccessivamente alta.

Nel 2020, l’età media dell’esercito, la forza armata che dovrebbe essere la più giovane, era pari a 38 anni, in costante aumento. Riguardo alla sproporzione delle spese, il governo ha proseguito il trend di crescita delle spese per il personale, a scapito dell’esercizio.

Quanto all’età, il governo non è riuscito a implementare rilevanti iniziative volte a porre un freno al costante invecchiamento del personale. Al contrario, approvando la revisione del modello delle forze armate italiane, esso ha ulteriormente prorogato i termini di applicazione della legge 244/2012, o “riforma Di Paola”, la quale prevedeva un taglio degli organici e un conseguente ringiovanimento del personale militare.

Cerchi istituzionali

Infine, un ultimo elemento che occorre analizzare è quello della posizione di Roma all’interno dei tre fondamentali cerchi all’interno del quale si è tradizionalmente mossa la politica di difesa italiana, ovvero l’Onu, l’Ue e la Nato. In particolare, se la posizione di Roma nei confronti dell’Onu appare chiara e inequivocabile – l’Italia è fin dagli anni Ottanta un grande contributore delle operazioni della Nazioni unite – occorre osservare con più attenzione l’atteggiamento di Roma nei confronti delle ultime due istituzioni.

Questo in ragione dell’acceso dibattito che si è sviluppato in Europa, almeno dall’avvento di Donald Trump alla Casa Bianca, e che ha visto i paesi europei assumere posizioni diverse in merito al rapporto da stabilire tra queste due organizzazioni.

La posizione assunta dalla Difesa italiana durante il governo Draghi è molto chiara: Roma sostiene con forza la Nato, che resta l’alleanza di riferimento per la difesa e per la deterrenza, e concepisce la politica di sicurezza e difesa comune in sinergia e complementarità con l’Alleanza atlantica. La ferma adesione di Roma alla Nato è divenuta evidente non solo nelle dichiarazioni, ma anche nella scelta di schierare prontamente circa 1.500 uomini all’interno del nuovo dispositivo Nato in Europa orientale.

Sforzi futuri

In conclusione, l’esecutivo presieduto da Mario Draghi ha accelerato il processo di ri-orientamento strategico della Difesa verso il mediterraneo allargato, ha proseguito il trend di aumento delle spese militari, favorendo gli investimenti, e confermato l’assoluta centralità della Nato per l’Italia.

Tuttavia, la Difesa italiana rimane ancora afflitta da annosi problemi che riducono inevitabilmente l’efficacia del nostro strumento militare, e che richiedono interventi decisivi. Si tratta della questione del personale, troppo anziano, della sproporzione dei fondi, troppo sbilanciati verso la componente stipendiale, a scapito dell’addestramento, e di un impiego dello strumento militare spesso troppo sbilanciato verso la dimensione domestica, come dimostra l’elevato numero di uomini schierati in Italia nell’operazione “Strade sicure”, ma anche le continue richieste di intervento delle forze armate in ambiti sempre più distanti da quella che è la loro competenza professionale.

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