I droni della Cia sul porto del Venezuela, Trump “il pacifista” apre fronti di guerra

Negli ultimi giorni del 2025 l’amministrazione Trump ha avviato una nuova fase dello scontro con il regime di Nicolas Maduro, conducendo un’operazione militare contro obiettivi nel territorio del Venezuela. L’azione, realizzata con i droni della Cia, ha distrutto una struttura portuale ritenuta funzionale al traffico di droga. Secondo la versione di Washington, si è trattato di un intervento mirato, senza vittime civili, in continuità con la campagna contro le reti criminali che operano lungo la rotta caraibica. La «lotta al narcoterrorismo» dell’America meridionale, che ha un posto centrale nella dottrina Trump, raggiunge dunque un nuovo livello. La portata politica dell’operazione va ben oltre il singolo attacco. È la prima volta che Washington ammette un’azione diretta su territorio venezuelano, dopo una lunga serie di aggressioni a imbarcazioni di presunti cartelli della droga. Per Caracas, già alle prese con una crisi economica profonda e con l’isolamento internazionale, il messaggio è chiaro. Negli ultimi mesi, la pressione americana sul Venezuela si era intensificata attraverso operazioni navali, sequestri di petroliere e una retorica sempre più dura contro il governo di Maduro. Lo strike segna un salto di qualità e apre interrogativi su come Washington intenda gestire le inevitabili ricadute regionali, in un’area cruciale per realizzare quella che la Casa Bianca chiama «il corollario Trump alla dottrina Monroe». Paci “finte” e tensioni latenti, i conflitti che agitano il 2026 Il giorno dopo il vertice Le evidenze sul tipo di operazione in Venezuela – rivelate dalla Cnn per prima – sono emerse mentre Trump chiudeva l’anno con il vertice con il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu. Il faccia a faccia di Mar-a-Lago, centrato su Gaza, Iran e sicurezza regionale, si è così sovrapposto a un’azione militare che racconta molto del momento strategico americano. Nel Medio Oriente, l’amministrazione Trump ha rivendicato i risultati della prima fase del piano per Gaza: la restituzione degli ostaggi, il flusso di aiuti, una tregua che, pur fragile, ha retto. Ma anche qui le decisioni più difficili restano aperte. La fase successiva, quella che dovrebbe trasformare il fragilissimo cessate il fuoco in un assetto stabile, è carica di incognite. Hamas non è stata neutralizzata, la governance futura della Striscia resta indefinita e la pressione sull’Iran continua a rappresentare il vero nodo strategico. Trump ha concesso quello che Bibi chiedeva, cioè l’appoggio americano a un’ulteriore operazione contro il regime degli ayatollah, che appare inevitabile; ma il premier ha dovuto prendere atto delle divergenze sulla politica in Cisgiordania, dove le violenze sistematiche dei coloni, fiancheggiati dall’Idf, non sono gradite alla Casa Bianca, che teme il collasso della fragile autorità palestinese. Il giorno dopo il vertice, l’immagine che emerge è quella di una presidenza impegnata simultaneamente su più fronti, senza una chiara distinzione tra crisi in via di soluzione e conflitti pronti a riaccendersi. L’azione in Venezuela e il confronto con Netanyahu sono due facce della stessa strategia, dove la disponibilità all’uso della forza è uno strumento ordinario della politica estera. Venezuela, morsa bipartisan su Trump. Al Congresso l’ombra di crimini di guerra Fronti aperti Il bilancio internazionale del 2025 di Trump ha tratti paradossali. Eletto con la promessa di essere un presidente di pace, capace di ridurre l’impegno militare americano all’estero, chiude l’anno con più fronti aperti di quanti ne abbia realmente chiusi. La guerra a Gaza si è trasformata in una tregua instabile, il confronto con l’Iran promette nuovi round militari, il Libano rimane una variabile di rischio, la Nigeria è entrata nella lista degli obiettivi dell’ampia campagna di operazioni mirate che abbraccia Siria, Somalia e Yemen, e ora anche il Venezuela è evidentemente fra le crisi calde. Non si tratta di nuove guerre dichiarate, ma di una moltiplicazione di tensioni gestite attraverso operazioni, pressioni militari e messaggi politici muscolari. Una strategia che evita l’impantanamento di conflitti su larga scala, ma che espone gli Stati Uniti a una presenza costante e diffusa in teatri diversi, con il rischio di escalation impreviste. Il 2025 si chiude così con una serie di equilibri precari. Trump sembra aver sostituito l’idea di chiudere le guerre con quella di contenerle, colpirle ai margini, tenerle sotto pressione. Quanto a lungo gli Stati Uniti potranno gestire contemporaneamente tanti fronti senza che qualcuno di questi esploda in modo incontenibile è una domanda per il 2026. Portaerei ed esercitazioni: gli Usa si tengono pronti a colpire il Venezuela