Adenike Oladosu, classe 1994, indossa una t-shirt bianca con la scritta «The ecofemminist». L’attivista nigeriana ha portato per prima gli scioperi climatici nel suo paese e ora contribuisce alla lotta contro il cambiamento climatico e per il ripristino del lago Chad con l’associazione africana ILeadClimate. Oladosu ha portato le sue istanze anche alla conferenza per il clima delle Nazioni unite e al World economic forum.

Qual è la definizione di “ecofemminismo”?
L’ecofemminismo non è legato a un genere. Non significa che soltanto le donne debbano combattere per l’ambiente, ma dovrebbe essere uno sforzo congiunto di donne e uomini. L’uguaglianza tra i generi può portare alla giustizia climatica e la giustizia climatica porta all’uguaglianza tra i generi ed entrambe le cose si muovono intorno allo sviluppo sostenibile. Raggiungendo uno dei quegli obiettivi si raggiungono anche gli altri. In definitiva, ha tutto a che fare con come il cambiamento climatico colpisce donne e ragazze. 

In che termini?
Io vengo dalla Nigeria. Nelle zone rurali ci sono ragazze che lasciano la scuola per i primi effetti visibili (del cambiamento, ndr) come inondazioni, siccità, aumento del livello del mare. Ci sono anche donne che coprono distanze enormi per lavorare o svolgere altre attività. La quantità di tempo che impegnano in questi spostamenti limita la loro possibilità di contribuire allo sviluppo economico o all’impegno per conservare e proteggere l’ambiente. Usano questo tempo per andare lontano a recuperare risorse. Insomma, c’è sempre un impatto del cambiamento climatico su donne e ragazze, e questo condiziona lo sviluppo economico. 

Quali sono le prospettive future in questo contesto?
Se vogliamo avere guadagni economici, dobbiamo costruire un futuro in cui i diritti di donne e ragazze siano protetti.

Non c’è il rischio che l’aggettivo “femminista” crei un recinto intorno all’impegno contro il cambiamento climatico?
No, anzi, la ragione della definizione sta nei fatti, come gli esempi che ho fatto prima. L’ecofemminismo combatte anche per i diritti di donne e ragazze: lottiamo tutti per qualcosa di cruciale, è una guerra generale, non una questione specifica, ed è per questo che la ritengo neutrale nel genere.

Quali sono le conseguenze pratiche?
Mi occupo del restringimento del Lago Ciad, da cui dipendono 40 milioni di persone. Gli effetti su donne e ragazze sono evidenti. Devono sopportare gli allagamenti, mentre nei periodi di siccità le ragazze vengono sposate giovanissime. Nel sud del mondo le donne sono vulnerabili perché le ragazze vengono usate come merce di scambio per gestire meglio il cambiamento climatico. Le sposano molto presto, quando ancora non hanno nemmeno l’età minima prevista dalla legge. In questo modo le privano della possibilità di ricevere un’educazione. Sono tutti esempi di disuguaglianza legata al sesso, e il cambiamento climatico li amplifica. 

Le persone come reagiscono al suo attivismo? 
Quando ho cominciato ho notato che c’era un livello di educazione climatica molto basso. Sono cresciuta nella zona che è il granaio del paese e ho visto che gli effetti del cambiamento climatico spesso vengono associati alla religione o a questione etniche o politiche. Non tanti considerano il problema dal punto di vista ambientale, considerando che i conflitti dipendono dal fatto che tutti dipendono dalle stesse risorse: è questo che crea la competizione tra chi le vuole sfruttare. 

Qual è la soluzione?
Penso ci sia bisogno di educare le persone. Credo che l’educazione sia uno strumento che dobbiamo dare a tutti: se uno non sa che c’è un problema è impossibile che lo risolva. Identificare il problema è il primo passo per trovare una soluzione. Così ho cominciato a lavorare nelle scuole, con gli studenti, e ho scoperto che esisteva questo movimento, i Fridays for future, che si potrebbe riprodurre nel mio paese. Così ho cercato di attirare l’attenzione sul fatto che ci serviva un’azione più intensa. Tanti mi hanno seguito e sono felice che tanti giovani sono con noi. Penso al mio gruppo, ILeadClimate, che si impegna nelle crisi che ci riguardano in Africa. Siamo sempre di più, e ne sono felicissima. Quel che mi dà speranza è che il movimento ambientalista ha il volto di tanti giovani. 

I movimenti che lottano contro il cambiamento climatico sono spesso criticati perché troppo ricchi e troppo bianchi. L’ambientalismo è davvero appannaggio dei più abbienti? 
Non è una questione che riguarda solo i ricchi, tutti si devono preoccupare del nostro pianeta. Siamo tutti sulla stessa Terra. I ricchi credono di avere denaro necessario per gestire gli effetti del cambiamento climatico, forse è questo il motivo per cui non compiono le azioni necessarie per fermarlo. 

Dovremmo dare spazio sui social media e nel giornalismo a quelli che invece sanno che non abbiamo tempo e se non agiamo adesso ne subiranno le conseguenze. Ho letto che se eliminassimo la povertà le emissioni non subiranno conseguenze, perché le emissioni sono prodotte dai ricchi. Dobbiamo continuare a lavorare su queste disuguaglianze denunciando i ricchi che non si stanno impegnando a creare politiche adatte per compiere azioni utili. 

I giornalisti che coprono i movimenti ambientalisti sono utili nella lotta contro il cambiamento climatico?
Credo sia pericoloso porre l’accento soltanto su un movimento e non su tutti gli altri. Il nostro scopo è comune, quindi i nostri sforzi per il raggiungimento della giustizia climatica andrebbero considerati nel loro complesso, perché la diversità è la ricchezza del movimento e sono i ragazzi a richiamare alle loro responsabilità i governi. È un bel movimento in cui ci sono diverse iniziative, che vanno tutte valorizzate. 

Cosa pensa di attivisti che scelgono di manifestare con azioni più incisive, come fa per esempio Extinction Rebellion? Sono utili o rischiano di essere controproducenti?
Penso che persone diverse abbiano modi diversi di manifestare le loro opinioni. Magari è utile per attirare l’attenzione sulla causa, ma la strada migliore cambia di paese in paese. Quelle sono azioni che funzionano negli Stati Uniti o nel Regno Unito, nel sud del mondo magari non sono possibili o rischierebbero di creare situazioni pericolose. Dobbiamo essere attenti e valutare bene le strade che scegliamo. Un movimento internazionale non significa che le strategie siano le stesse ovunque. 

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