Lo scorso agosto Turchia e Israele hanno ufficialmente posto fine ad anni di tensioni diplomatiche con la nomina di rispettivi ambasciatori. Il riavvicinamento, proposto e sostenuto dallo stesso Recep Tayyip Erdogan negli ultimi mesi, si inscrive nella tattica turca di rompere l’isolamento decennale del paese, effetto di una politica estera muscolare e assertiva.

Il rapprochement turco-israeliano è il risultato di un’equazione strategica attraverso la quale i turchi provano a incunearsi nella partita energetica del Mediterraneo orientale, dalla quale sono stati esclusi a causa di tensioni con alcuni stati rivieraschi.

Da tensione a competizione

I rapporti fra Gerusalemme e Ankara, dopo aver vissuto il loro zenit negli anni Novanta, si sono infatti rapidamente deteriorati con l’ascesa al potere di Erdogan e con il sostegno del Partito della giustizia e dello sviluppo (Akp) ad Hamas, divenuto agli occhi turchi il principale interlocutore palestinese dopo il conflitto con Fatah del 2006.

In realtà, la questione palestinese è sempre stata un punto di discordia fra turchi e israeliani e ne ha mitigato la cooperazione anche prima dell’ascesa dell’Akp: per la quasi totalità dell’elettorato turco, la causa del popolo palestinese è stata tradizionalmente ritenuta un tema non negoziabile e trasversale, con il quale i decisori politici turchi si sono dovuti confrontare con cautela a più riprese in tutta la seconda metà del Novecento, anche in funzione della reputazione regionale turca agli occhi dei paesi arabi.

Il punto più basso nelle relazioni fra Turchia e Israele si è toccato nel 2010, in conseguenza dell’incidente della nave Mavi Marmara, nel quale hanno perso la vita otto cittadini turchi. Fino ad allora, la cooperazione turco-israeliana si era sviluppata nel settore del commercio, del turismo e della difesa. Con la rottura che ne è seguita, la cooperazione militare ha subito una brusca frenata che dura tutt’oggi, mentre a livello diplomatico, dopo il riconoscimento statunitense di Gerusalemme come capitale israeliana nel 2018, i rapporti sono stati recisi con il ritiro dei rispettivi ambasciatori.

La scoperta di giacimenti di gas nel bacino levantino ha cambiato però le carte in tavola: il rinvenimento di riserve a largo delle coste israeliane, egiziane e cipriote ha tramutato le tensioni diplomatiche fra turchi e israeliani in competizione strategica.

Il forum del gas

Le politiche assertive della Turchia per rivendicare il proprio diritto allo sfruttamento di quelli che ritiene essere i propri fondali marini e la propria zona economica esclusiva (Zee), hanno condotto Ankara a essere non solo esclusa dalla partita energetica regionale, ma anche all’isolamento strategico: la creazione dell’East med gas forum, oggi organizzazione internazionale, ne è la materializzazione.

La Turchia è infatti l’unico paese rivierasco, insieme a Libano, Siria e Libia – che tuttavia non riconoscono Israele – a essere stato escluso dai progetti che ne sono derivati, come il gasdotto EastMed. L’esclusione turca dal Forum del gas, di cui fa parte anche l’Italia, è stata il risultato delle operazioni di trivellazione condotte da Ankara in Zee greche e cipriote e delle provocazioni che la marina turca ha lanciato negli scorsi anni, come nel caso della nave Saipem di Eni nel 2018. La partnership di Israele con Grecia e Cipro, oltre che a rispondere alla strategia di diversificare i propri partner, è anche il risultato e la risposta a queste politiche muscolari turche.

A oggi Gerusalemme ha infatti siglato un accordo con Atene di 1,37 miliardi di euro, di cui fa parte anche l’italiana Leonardo, per l’addestramento e l’ammodernamento dell’aviazione ellenica; si tratta del più importante accordo in materia di difesa nella storia delle relazioni fra i due paesi. Allo stesso modo, negli ultimi mesi, lo stato ebraico ha acconsentito a vendere il sistema di difesa antimissilistico “Iron Dome” ai ciprioti, oltre a kit di ammodernamento per l’esercito.

La svolta di Erdogan

AP

Fino al dicembre 2020, la Turchia aveva perseguito una politica aggressiva in difesa delle proprie rivendicazioni marittime, ma la vittoria di Joe Biden nelle elezioni Usa, l’inasprimento della crisi economica e la conseguente perdita di consensi interni, hanno indotto il presidente Erdogan a una svolta sostanziale in politica estera.

Nel giro di due anni la Turchia ha infatti riallacciato i rapporti con quasi tutti quegli attori mediorientali con i quali era entrata in contrasto dal 2010-2011 per effetto di una politica regionale improntata all’estensione della sua influenza. Israele rientra in questo calcolo.

Ankara necessita infatti dello stato ebraico per almeno due ragioni: la prima e più importante è quella di rientrare nella partita energetica del Mediterraneo orientale con l’obiettivo di indebolire l’asse antiturco; la seconda è quella di riallacciare, dopo più di dieci anni, una cooperazione militare per l’ammodernamento delle forze armate.

Dopo lo scoppio del conflitto in Ucraina, l’ambito energetico è divenuto ancor più prioritario, data l’esigenza non solo della Turchia, ma anche dell’Europa, di smarcarsi dalla dipendenza dal gas russo. Nell’incontro fra il presidente israeliano Isaac Herzog ed Erdogan ad Ankara, il leader turco aveva menzionato la possibilità di accordi per la cooperazione energetica nel Mediterraneo. Essi implicherebbero la ripresa del progetto del 2016, mai attuato, di un gasdotto che trasporterebbe il gas dal giacimento israeliano Leviathan verso la Turchia, la quale assumerebbe al contempo il ruolo di consumatrice e di hub verso l’Europa.

Progetti e incertezze

(AP Photo/Francisco Seco)

Il progetto si era interrotto nel 2018 in seguito alla rottura delle relazioni diplomatiche, favorendo EastMed. La bocciatura statunitense nei confronti di quest’ultimo, poi ritrattata questa estate, aveva rilanciato il piano turco come realizzabile, soprattutto sotto il profilo dei costi, meno di un terzo di EastMed.

Tuttavia, l’assenza del ministro dell’Energia turco Fatih Dönmez dalla delegazione turca in Israele lo scorso maggio, ha rivelato le numerose diffidenze da parte israeliana. In primo luogo, quelle relative ai legami tra l’establishment turco e Hamas: per Ankara il rapporto con il Movimento islamico di resistenza rappresenta sia una carta in politica interna sia una leva nelle trattative con lo stato ebraico. In secondo luogo, Gerusalemme ritiene inattendibile il presidente Erdogan, anche per le dichiarazioni anti israeliane che ha rilasciato negli ultimi due decenni.

In questo senso, il risultato delle elezioni in corso oggi, primo novembre, in Israele rischia di compromettere le relazioni con la Turchia in caso di vittoria di Netanyahu, il quale ha già espresso il suo disprezzo per il processo di riavvicinamento ad Ankara. Infine, la cooperazione energetica, sulla quale i turchi spingono molto, è oggi molto meno appetibile per lo stato ebraico.

Gerusalemme esporta già infatti il proprio gas verso l’Egitto, dove viene liquefatto per poi essere trasportato in Europa come gnl, mentre il rilancio del progetto EastMed, nonostante i costi e le difficoltà politiche riscontrate, avvicinerebbe ulteriormente Israele a Grecia e Cipro.

Il già discusso progetto di gasdotto turco-israeliano, nonostante i costi contenuti e il recente accordo storico fra Libano e Israele, presenterebbe inoltre delle problematiche politiche non indifferenti legate al suo percorso, che attraverserebbe anche le acque territoriali cipriote o siriane, presentando criticità tanto per i turchi che per gli israeliani.

Il rapprochement con la Turchia potrebbe comunque dare potenzialmente frutti nel settore della difesa, dove tanto lo stato ebraico quanto quello turco condividono interessi. Certo è che l’avvio di accordi del genere richiederebbe significativi passi in avanti da parte di Ankara sul piano diplomatico, in una fase di incertezza politica interna per entrambi i paesi data dalle incombenti elezioni, che potrebbero cambiare nuovamente le carte in tavola.

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