Da più di un mese studenti e professori dell’università Boğaziçi di Istanbul si danno appuntamento ogni giorno per voltare le spalle all’ufficio del rettore, Melih Bulu, in segno di protesta contro la sua nomina.

Bulu è stato assegnato all’Ateneo il 2 gennaio tramite decreto presidenziale pur non essendo un professore dell’università istanbuliota né avendo un curriculum adatto alla carica che si trova a ricoprire. A pesare molto di più è la sua affiliazione politica: Bulu infatti appartiene all’Akp, il Partito giustizia e sviluppo del presidente Recep Tayyip Erdogan. Non sorprende quindi che su Twitter si sia in poco tempo diffuso l’hashtag #KayyumRektörİstemiyoruz, letteralmente «non vogliamo come rettore un fiduciario», ossia una persona fedele al presidente e dalla chiara appartenenza ideologica.

Nuove voci

A dare inizio alle proteste sono stati gli studenti e i professori di una delle più antiche e prestigiose università della Turchia, ma altri atenei in tutto il paese hanno unito la propria voce a quella della Boğaziçi. La richiesta comune è che si metta fine alla nomina con decreto presidenziale dei rettori, una norma in vigore dal 2016 e già utilizzata in passato dai predecessori di Erdogan, primo fra tutti Kemal Atatürk, il fondatore della moderna Turchia. Questa volta, però, il conferimento dell’incarico di rettore a Melih Bulu ha fatto discutere maggiormente perché interessa una delle università più indipendenti e progressiste del paese. Nell’ateneo istanbuliota sono attivi gruppi Lgbt e femministi e non è mai stato negato alle studentesse con il velo il permesso di frequentare le lezioni, anche prima che il divieto di coprirsi il capo nei campus universitari fosse eliminato. Boğaziçi è stato il primo Istituto superiore americano fondato al di fuori degli Stati Uniti nel 1983 ed è diventato università statale nel 1971.

Bulu, tuttavia, non è l’unico rettore di nomina governativa del 2021: i capi di ateneo scelti da Erdogan a inizio anno sono stati in totale cinque, mentre nel 2020 sono stati 27.

Una pratica resa possibile dalle misure di emergenza adottate dal presidente dopo il fallito colpo di Stato del 2016 e grazie alle quali Erdogan è riuscito a contrastare il dissenso, tanto politico quando accademico e sociale. Il giro di vite portato avanti dal capo di stato contro le università è costato il posto a più di 8mila professori e ha fortemente danneggiato l’istruzione superiore. La Turchia è scivolata tra le ultime posizioni nell’Academic Freedom Index insieme a Iran, Libia, Corea del nord e Cina ed è stata inserita nella lista dei dieci paesi che hanno registrato un significativo peggioramento nel settore dell’istruzione negli ultimi cinque anni. La stessa Boğaziçi, prima inserita tra le migliori università dal Times Higher Education University Ranking Index, ha perso molte posizioni e nessun ateneo turco figura più tra i 500 migliori al mondo.

L’aumento del controllo governativo e il generale deterioramento del rispetto dei diritti in Turchia hanno anche portato alla perdita di diversi fondi stanziati dall’Unione europea, oltre ad aver reso il paese meno interessante per accademici e studenti stranieri. Gli stessi turchi preferiscono studiare fuori dalla Turchia: circa 100mila ragazzi frequentano l’università all’estero e il 70 per cento afferma di non voler far ritorno in patria una volta terminati gli studi.

La formazione dei nuovi turchi

Eppure, fin dall’inizio della sua scalata al potere, Erdogan aveva promesso di migliorare l’istruzione superiore in Turchia, aumentando il numero degli atenei e la qualità dell’insegnamento. L’obiettivo del presidente però si è dimostrato essere un altro: controllare il più possibile le università per reprimere il dissenso e diffondere i valori che contraddistinguono la sua politica conservatrice. Erdogan mira infatti a forgiare attraverso l’istruzione dei nuovi turchi che condividano e portino avanti la sua visione della Turchia. Per questo motivo le sue mire sono dirette principalmente verso la Generazione Z, un gruppo formato da circa 13 milioni di turchi in cui rientrano coloro che sono nati tra il 1995 e il 2010, una parte dei quali potrà già votare per le elezioni del 2023.

Le proteste degli studenti universitari non sono quindi un buon segnale per Erdogan. Le manifestazioni continuano nonostante la repressione delle forze dell’ordine, che negli ultimi giorni hanno usato gas lacrimogeni e proiettili di gomma, arrivando persino a schierare dei cecchini sui tetti degli edifici circostanti. Inoltre, i primi di febbraio ben 134 persone, per lo più studenti, sono state arrestate e circa 98 sono ancora in stato di fermo, mentre aumentano le denunce di maltrattamenti da parte delle forze dell’ordine. Bulu però non sembra intenzionato a fare marcia indietro: il rettore ha affermato che le proteste non dureranno più di sei mesi e che guidare la Boğaziçi è un sogno a cui non vuole in alcun modo rinunciare.

D’altro canto lo stesso Erdogan si è più volte rifiutato di dialogare con i manifestanti, da lui definiti dei «terroristi», soprattutto dopo l’accostamento di un arcobaleno da parte di alcuni attivisti del movimento Lgbt con la Kaaba, il sito più sacro per l’islam. Gli studenti che hanno realizzato il disegno sono stati arrestati e definiti dal ministro dell’Interno dei «pervertiti», mentre il governatore di Istanbul ordinava il sequestro delle bandiere del movimento.

La repressione delle proteste dimostra anche la debolezza dello stato turco. Le autorità temono una nuova Gezi Park (il riferimento è alle grandi manifestazioni del 2013). La resistenza degli studenti di Boğaziçi apre inoltre una finestra sulle fratture interne alla società turca e sulla difficoltà del presidente di conquistare le nuove generazioni, indispensabili per il mantenimento del suo potere.

 

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