Non solo la guerra di Etiopia e Tigray iniziata a novembre 2020 ha causato – secondo l’Alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni unite – oltre 280mila sfollati e un numero imprecisato di morti, ma da ciò che emerge dalle investigazioni dei reporter della Cnn è che i soldati eritrei ed etiopi impegnati nelle operazioni militari sul territorio avrebbero compiuto stupri di massa sulla popolazione femminile tigrina.

Ai reporter hanno parlato circa quaranta delle vittime oggi ospitate in una casa di sicurezza. Alcune di queste hanno raccontato di essere state picchiate, drogate per essere poi stuprate, non solo individualmente, ma anche da interi gruppi di militari.

Una testimone ha raccontato di essere stata stuprata da oltre trenta militari dell’esercito eritreo.

Le reazioni

La notizia ha suscitato l’unanime reazione di indignazione della comunità internazionale e anche il governo etiope ha deciso di fare sentire la sua presenza con un tweet.

Il primo ministro si è rivolto al suo esercito dicendo che chi ha compiuto gli atti di violenza contro le donne sarà ritenuto responsabile e quindi debitamente punito per i crimini di cui si è macchiato.

Un monito che se da un lato può apparire come un rimprovero troppo lieve, dall’altra riporta l’attenzione pubblica sul comportamento dell’esercito, in piena distonia con quello del governo, fin dall’inizio molto impegnato sul tema della tutela delle donne.

Il tentativo

Fin dal 2018 sono state portate avanti politiche che rapidamente hanno permesso la risalita della tematica delle quote rosa in cima all'agenda governativa.

Il primo ministro Abiy Ahmed secondo quanto riferito da fonti interne avrebbe infatti detto espressamente di preferirle per la gradita qualità di essere «meno corruttibili» rispetto agli uomini, e quindi più oneste e meritevoli di incarichi di responsabilità.

Una prova della coerenza della precedente affermazione è stata compiuta quando il primo ministro nell’ottobre 2018 ha posto a capo del paese la prima donna presidente nella storia d’Etiopia, Sahle-Uork Zeudé.

Nello stesso mese alcuni ministeri a guida maschile hanno ricevuto una guida al femminile arrivando a raggiungere una vera situazione di “pari opportunità” di dieci ministeri su venti in mano a donne.

In quell’occasione ha ricevuto l'incarico la ministra della Difesa Aisha Mohammed e ha trovato spazio un ministero dedicato alla Pace, anch’esso guidato da una donna, Muferiat Kamil.

L’esperimento, se è riuscito a coinvolgere la parte apicale della società etiope, non ha purtroppo nemmeno ancora sfiorato la vita delle donne nelle aree rurali. Secondo i dati riportati dall’associazione statunitense Usaid, circa l’80 per cento della popolazione etiope vive in zone di campagna, in assenza dei servizi essenziali come acqua e luce. In questi territori a compiere la maggior parte del lavoro per portare a casa il nutrimento e i beni essenziali sono le donne.

Un paese bloccato

Nell’ultimo periodo di transizione si è svolta un’interminabile sequenza di vendette inter-etniche che hanno tenuto in ostaggio il popolo e che hanno coinvolto più di una volta nello scandalo anche le forze speciali regionali. In questo senso il commento del primo ministro tutto rivolto ai militari ha rappresentato un ennesimo tentativo di riportare all’ordine un comparto che ha dimostrato di essere l’ago della bilancia per lo sviluppo della nuova democrazia nel paese e allo stesso tempo il tallone d’Achille del sistema sicurezza, spesso e volentieri influenzato nelle proprie azioni dalle diverse correnti politiche.

Già il report di Amnesty International intitolato Troppo oltre il rispetto della legge aveva fatto emergere la gravità della situazione. Tra il 2018 e il 2019 alcune approfondite indagini hanno portato alla luce alcune stragi, stupri, rapimenti e violenze arbitrarie compiute dalle stesse forze speciali regionali, cioè quei gruppi incaricati di proteggere la popolazione proprio dai conflitti inter-etnici, gruppi militari che invece erano intervenuti a sostegno dei gruppi estremisti. La goccia che ha fatto traboccare il vaso sarebbe stata la partecipazione delle truppe eritree nel conflitto, partecipazione diventata pubblica solo recentemente anche a causa delle indagini sulla strage di Axum a cui sarebbe seguita la richiesta di ritiro delle stesse truppe.

Le violenze

Secondo il report della Commissione etiope per i diritti umani (Ehrc) nella città considerata santa dalla comunità cristiano ortodossa sono stati compiuti decine di assassini e violenze su civili. Il dramma, se è il risultato dell’intervento eritreo nel conflitto con il Tigray, prova anche come l’accordo di pace, siglato dai due paesi a inizio legislatura, resti inconsistente per ciò che riguarda i diritti umani, nota dolente che per l’Eritrea resta ancora un tabù. Nella terra del presidente Isaias Afeworki le condizioni di vita dei cittadini da decenni restano drammatiche anche a causa delle leggi che impongono un servizio militare a tempo indeterminato.

In Eritrea le donne sono ancora considerate madri di futuri soldati da immolare per la patria, generatrici di membri dell’esercito pronti al sacrificio, soldati la cui stessa vita non ha nessun valore. Lo ha dimostrato la strage di Axum, lo dimostra anche il comportamento dei soldati che hanno compiuto atrocità verso le donne in Tigray.

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