Cosa deve esserci nel piano Mattei che il governo sta preparando? Per ottenere un impatto reale non può che basarsi sul lungo termine. Non è serio continuare a pensare che la risposta debba essere soltanto emergenziale, in particolare se si pensa alle migrazioni. L’Africa ne produrrà ancora per lungo tempo, almeno fino a che non potrà disporre di una produzione locale fruibile per il proprio mercato interno e non solo limitarsi a fare il provider di materie prime (energetiche, minerarie o agricole) per gli altri continenti.

Per questo il piano Mattei dovrebbe prevedere lo spostamento progressivo verso l’Africa di una parte delle produzioni, della manifattura o delle industrie di trasformazione, in specie nel settore agroalimentare. È la sola strada per ottenere una dinamica di sviluppo virtuosa. Non basta un piano di aiuti di emergenza, pur necessari: ci vuole un progetto economico a lungo termine. Qui si innesta la seconda condizione: negoziare il piano con gli africani stessi. Non è possibile immaginare che l’Italia sappia già tutto su cosa serve al continente senza parlarne con gli interessati. Sarebbe proseguire sulla strada seguita fino ad ora dall’Europa, che non ha portato a buoni risultati. Non si tratta solo di una questione morale, etica o di diritti: è un tema squisitamente politico.

Anche ammettendo che le nostre idee siano migliori e che il nostro approccio sia più equo, non è più il tempo per tali imposizioni o anche semplicemente indicazioni. Gli africani non lo accetterebbero in nessun caso. Per tali ragioni occorre trattare e trovare convenienze e convergenze comuni.

Quali sono le sfide più evidenti per l’Italia (l’Europa) e l’Africa? Innanzi tutto c’è un tema strutturale: la tenuta degli stati. All’Italia (come all’Europa tutta) serve che in Africa vi siano stati resilienti, in controllo del proprio territorio. L’esperienza libica ha fatto comprendere sin troppo bene sia agli africani che ai dirimpettai italiani ed europei che quando manca lo stato è molto complicato potersi accordare con milizie, gruppi armati e altri soggetti che ne prendono il posto. Le conseguenze che subiamo sulla sponda nord a causa della fine dello stato in Libia, sono le stesse che soffrono gli stati africani posti a sud della Libia, forse anche peggiori.

Politica comune

La morte dello stato libico ha aperto le porte a flussi incontrollati verso nord ma ha mandato in crisi interi stati a sud, come il Mali o il Burkina Faso. Va evitato il caos gestito da soggetti armati senza alcuna legittimità e dediti a traffici di ogni tipo.

Questo non vale solo per l’Italia ma anche per l’Africa. Un piano Mattei serio mira a difendere la tenuta degli stati sub-sahariani: senza di essi non ci sarebbe alcun soggetto con cui parlare o accordarsi, né alcuna possibilità di progettare lo sviluppo. Certamente sarebbe meglio avere a che fare con stati democratici. Tuttavia anche stati in transizione o ancora indietro su tale terreno sono comunque degli interlocutori necessari.

Meglio uno stato non ancora compiutamente democratico piuttosto che l’anarchia violenta e caotica. Ma occorre stare attenti ad un limite invalicabile: talvolta regimi autoritari provocano l’autodistruzione dello stato che pretendono difendere. È il caso di alcuni stati del nord Africa, oggi in balia di una politica senza prospettiva da cui i cittadini fuggono proprio a causa del loro autoritarismo. In conclusione: collaborare con stati in transizione ma evitare di cadere ostaggi di regimi che non tollerano il dialogo e la negoziazione.

La cartina di tornasole per comprendere se con uno stato africano si possa collaborare mediante il piano Mattei è se accetta di negoziarlo. Ciò vale per i progetti italiani ma soprattutto per quelli europei. A sud del Mediterraneo e del Sahara la dissoluzione degli stati è il primo grande pericolo per il nostro paese ma nessuno può fare tutto da solo.

A questo livello serve una politica di cooperazione e sicurezza che l’Italia non può svolgere in solitaria: in Africa è necessario un accordo prima di tutto con la Francia; poi con Germania e Spagna; a cui aggiungere intese con Turchia, gli Emirati Arabi Uniti ecc.

Va elaborata una politica di sostegno alla stabilità degli stati in termini di cooperazione alla sicurezza, collaborazione delle forze dell’ordine, scambio di intelligence, fino alla cooperazione militare laddove essa sia preventiva.

Soltanto a tali condizioni preliminari il piano Mattei può puntare a gestire ragionevolmente i flussi incontrollati di emigrazione, evitando le morti in mare o nel deserto. Se si vuole ottenere la collaborazione degli stati di origine e transito occorre non limitarsi ad offrire denari e supporto per il controllo delle frontiere ma dare in cambio qualcosa di concreto: fine delle doppie imposizioni, trasferimenti pensionistici, cooperazione tecnologica, spostamento delle produzioni in particolare agricole e così via.

L’Africa deve poter produrre e trasformare: l’economia della rendita da materie prime non è più sufficiente, anzi è diventata invisa alle popolazioni locali che la leggono come sfruttamento, paternalismo o neocolonialismo. Gli stati africani devono diventare reali partner del loro medesimo sviluppo. È nel settore agricolo che l’Italia può fare di più, mediante un partenariato tecnologicamente innovativo e la trasformazione dei prodotti in loco. Possiamo dare un grosso contributo alla nascita di un’industria agroalimentare africana, anche se questo ci costa il dover cedere qualcosa.

Corridoi

L’Italia ha il know how necessario e migliaia di produttori piccoli e medi che possono trasmetterlo. Un grande piano Italia-Africa sull’agribusiness andrebbe ad incidere davvero sulla realtà africana rurale. Vi sono altri settori utili al piano Mattei come l’energia, il turismo, l’edilizia ecc. Tuttavia l’agribusiness resta certamente il più strategico da un punto di vista occupazionale e quindi migratorio. È evidente che per una tale operazione serve tempo e pazienza. Infine un ulteriore volet per il piano Mattei sono le opere infrastrutturali. Non bisogna solo immaginare grandi opere: in Africa mancano le opere medie, le strade intermedie di collegamento, i porti e gli aeroporti medi, i corridoi secondari e la logistica afferente.

Non sempre il gigantismo è sufficiente: sono necessari i grandi corridoi per collegare l’Africa atlantica a quella dell’oceano Indiano, oppure la dorsale nord sud o anche la grande strada costiera dell’Africa occidentale e centrale. Se ne stanno già occupando i cinesi ma anche la Commissione europea con il programma Global Gateway.

Lanciato nel 2021 quest’ultimo vuole essere la risposta europea all’aggressività di Pechino. Il Gateway sarà finanziato con 150 miliardi, mobilitando il settore privato. L’Italia potrebbe fare due cose: entrare nel Global Gateway mediante le proprie grandi imprese private di trasporto e grandi opere. In secondo luogo potrebbe creare un programma parallelo per aggiungere le linee secondarie ai grandi corridoi: proprio quelle che riguardano le aree interne dei paesi africani da dove si muovono i potenziali migranti.

Occorre tener conto che le migrazioni africane sono cambiate con il tempo: prima partivano gli adulti o erano loro a decidere chi dei giovani dovesse farlo. Oggi i giovani (oltre il 60 per cento della popolazione africana è sotto i 24 anni) fanno da soli, muovendosi in un primo tempo verso le megalopoli africane da dove poi tentare il grande balzo verso l’Europa. Si dà anche il triste caso dei bambini e adolescenti inviati in avanscoperta dai propri genitori, e che creano il terribile fenomeno dei minori non accompagnati che ben conosciamo.

Infine il piano Mattei dovrebbe inventare e mettere in pratica il tanto atteso sistema circolare delle migrazioni: la possibilità di venire a formarsi in Italia (e in Europa) e anche a lavorarci per un periodo, per poi rientrare (disseminando così know how) ed avere la possibilità – dopo un congruo numero di anni – di ritornare per riciclaggio o specializzazione e così via.

Non possiamo rassegnarci all’irregolarità: occorre proporre vie legali e sicure. Un sistema circolare che permetta un fruttuoso scambio, basato sull’esperienza dei corridoi umanitari ideati dalla Comunità Sant’Egidio e che a tutt’oggi restano l’unico canale sicuro e legale per giungere in Italia.

I corridoi rispondono a quell’esigenza di manodopera che abbiamo nel nostro paese e che esiste in tutta Europa. Su tale modello si può costruire una risposta non solo emergenziale.

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