Se la guerra è il fallimento della politica, cosa dire del governo di Benjamin Netanyahu? Israele ha quattro fronti aperti, tutti accesi, o riavviati in modo deciso, dopo la carneficina di Hamas del 7 ottobre. Una risposta in armi a Gaza contro il gruppo terroristico era e resta legittima, ma non è stata solo tale. Inorridisce il “come”.

L’esercito con la stella di Davide ha varcato diverse linee rosse e il risultato sono gli oltre 34mila morti, in maggioranza civili comprese donne e bambini, i bombardamenti di ospedali, di sedi di associazioni umanitarie, di file per la distribuzione degli aiuti, senza contare gli spostamenti massicci e forzati di una popolazione stremata.

È impossibile collocare tutto questo sotto la dizione, peraltro orrenda, di “danni collaterali” per un’offensiva che non ha minimamente tenuto in conto le regole che dovrebbe osservare l’apparato militare di qualunque stato democratico. All’orizzonte si annuncia ora un nuovo capitolo, prevedibilmente ancora più sanguinoso, l’attacco a Rafah dove sono ammassati centinaia di migliaia di profughi.

Fermare il massacro

La comunità internazionale ha un concorso di colpa per non aver preteso con maggior vigore lo stop al massacro, ai crimini di guerra, accettando più o meno supinamente la cosiddetta “realtà del terreno” giudicandola ineluttabile.

È ben vero che l’Onu, o gli Stati Uniti, hanno cercato di operare una sorta di moral suasion usando termini anche duri, ma si sono limitati a dichiarazioni di principio, ignorate con un’alzata di spalle da un esecutivo che, in assenza di un contrasto veemente, ha ritenuto di godere di una sorta di impunità e ha proseguito tetragono nel suo furore bellicista.

Senza trovare ostacoli impegnativi sul suo cammino, il governo Netanyahu ha dunque proseguito sulla linea del conflitto a tutti i costi arrivando a bombardare una sede diplomatica iraniana in Siria adducendo come scusante la presenza all’interno di alcuni tagliagole ma sapendo esattamente che così si sarebbe alzato il livello dello scontro con gli ayatollah.

La cartina di tornasole dell’assunto l’ha fornita lo stesso Israele che il giorno di Natale scorso ha eliminato per le strade di Damasco il generale iraniano Seyed Razi Mousavi, attendendo con pazienza che uscisse dall’ambasciata dove si era nascosto da tempo sapendo di essere un target, e dunque evitando di violare il tabù dei luoghi protetti come appunto le sedi diplomatiche. Quel che ne è seguito lo sappiamo, la ritorsione iraniana e la contro-ritorsione israeliana, seppur limitate e senza la sicurezza che sia finita qui.

Libano e Cisgiordania

Il terzo fronte è il sud del Libano, il confronto annoso con Hezbollah rimasto a lungo in sonno anche per la presenza dei caschi blu e sfociato dopo il 7 ottobre in provocazioni continue ma di grado crescente da entrambe le parti che minacciano di diventare una guerra aperta per un incidente, magari involontario perché a qualcuno è slittata la frizione.

Il quarto fronte è il più emblematico, la Cisgiordania, l’altro lembo di terra, oltre a Gaza, dove dovrebbe nascere il futuribile stato palestinese se non fosse che il governo Netanyahu, sotto il ricatto della sua componente di estrema destra e razzista, continua nella creazione di una situazione di fatto per rendere impossibile quanto è sancito dalla risoluzione delle Nazioni unite datata 1947. Come?

Favorendo la costruzione di colonie che punteggiano ormai la cartina geografica dell’intera area. Il conflitto con i palestinesi, prima a bassa intensità, si è incancrenito e allargato, non c’è giorno in cui non si segnalino, scaramucce, omicidi e soprusi. Tanto da convincere persino gli Stati Uniti, a minacciare sanzioni nei confronti del battaglione Netzah Yehuda, regolarmente incardinato nelle forze armate israeliane e formato da soldati messianici colpevoli di comprovate violenze sulla popolazione civile nei Territori occupati. Il premier di Israele si è sempre detto del resto contrario alla creazione di uno stato palestinese.

Sempre meno popolare in patria, tanto che i sondaggi lo danno perdente se ci fossero elezioni, l’esecutivo sembra perseguire la filosofia per la quale finché c’è guerra c’è speranza.

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