C’era una volta, in Italia, la politica estera. E cioè la consapevolezza che prima veniva la scelta della nostra collocazione internazionale e solo dopo, molto dopo, veniva la definizione dei nostri schieramenti di governo. Avvenne così, nelle stagioni democristiane, che il Partito socialista dovette stare per una decina d’anni sull’uscio della maggioranza; e che poi il Partito comunista ne dovette attendere a sua volta ancora una trentina per togliersi di dosso le scorie del fattore K. I governi dell’epoca dovevano essere coerenti con le nostre alleanze. A pena altrimenti di non stare in piedi. Perfino nella nostra scombiccherata seconda repubblica quella regola venne, suppergiù, rispettata. Costringendo il centrodestra a restare unito sulla guerra in Iraq e il centrosinistra a sua volta non dividersi neppure sui bombardamenti in Serbia. Con buona pace degli alleati più riottosi e delle anime più inquiete.

Ora, si dirà che forse quella regola era troppo stretta. E alcuni pensavano, anche allora, che essa finisse con l’essere limitativa della nostra sovranità nazionale. D’altra parte, quello era un mondo lungamente segnato da tutte le asprezze e le rigidità della Guerra fredda, e infatti l’eredità degli accordi di Yalta (1945) finì per tenerci compagnia fino alla caduta del muro di Berlino (1989). Insomma il limite di quella nostra sovranità era anche, non troppo paradossalmente, la garanzia del suo esercizio.

Infatti, proprio quella coerenza che si pensava di dover onorare tra le nostre dispute casalinghe e le nostre sortite oltre frontiera costringeva le forze dell’epoca a pensarsi come parte del mondo.

Così, il nesso che veniva a stabilirsi tra alleanze interne e internazionali induceva i partiti a studiare le carte geopolitiche dell’epoca e a considerare che gli interessi di parte andavano sempre collocati su di una scacchiera un po’ più grande del nostro cortile di casa.

Tutto questo, ora, non sembra esserci più. Proprio adesso che il mondo si globalizza, le distanze si accorciano, le connessioni si stringono, i confini si attraversano, proprio adesso appunto sembra invece smarrirsi ogni legame tra le nostre vicissitudini casalinghe e il nostro posizionamento oltre frontiera.

Coalizioni come ipermercati

Foto LaPresse

Sotto il tetto delle stesse coalizioni militano infatti ai giorni nostri gli oppositori più strenui di Vladimir Putin e i suoi interlocutori più ammiccanti; gli atlantisti più allineati e i cultori di una sorta di anti americanismo ben mascherato; gli europeisti a tutto tondo e un bel po’ di euroscettici. E via elencando e saltabeccando da un punto all’altro del nostro globo messo sottosopra dagli ultimi avvenimenti.

Se la legge elettorale resterà questa, è assai probabile che le coalizioni che si offriranno al voto di qui a qualche mese appariranno, l’una e l’altra, come due ipermercati dove gli elettori appassionati al tema troveranno tutte le idee geopolitiche allineate sugli scaffali con una sorta di beata indifferenza per le conseguenze a cui finiranno per mettere capo. La nostra politica estera, a quel punto, diventerà – per dirla con Keynes - come acqua che scorre sulla pancia delle anatre.

Così, per la prima volta dai tempi del dopoguerra, rischierà di non esserci più nessun legame tra la coalizione che vincerà, quale che sia, e la proiezione internazionale del paese. Fino a far supporre che alla fine ognuno dei vincitori se ne andrà in giro per il mondo in ordine sparso avendo dato vita a patti di governo fondati su presupposti geopolitici piuttosto traballanti. 

Sovranità illusoria

Se ne potrebbe concludere che siamo più “sovrani” di quanto non fossimo prima. Ma sarebbe una conclusione fallace. La sovranità, infatti, è fatica ma non è disinvoltura. E del resto basta scorrere il film degli ultimi mesi per vedere il risvolto della medaglia. Questa legislatura s’è svolta appunto nel segno di una – illusoria – sovranità, invocata a bandiere spiegate e qualche volta perfino con lo spadone sguainato.

L’esito è stato quello che le cronache di questi giorni ci consegnano. Un governo (il Conte uno) che mette a disposizione di un ministro di uno stato straniero, ancorché alleato, i propri servizi come neppure al più zelante atlantista di una volta sarebbe mai venuto in mente.

Una missione “umanitaria” da parte di un altro stato infarcita di militari a cui veniva richiesta una improbabile assistenza sul fronte della lotta al Covid. Una improvvida apertura al progetto cinese della via della Seta percorsa in una trafelata (e sospetta) solitudine rispetto ai partner europei.

Per non dire delle sviolinate degli uni a beneficio di Viktor Orbán, quasi isolato in Europa; e dei traffici degli altri con il consolato venezuelano, non proprio un esempio di democrazia progressiva.

Tutte queste strade aperte e percorse a passo di carica, e subito dopo denegate per tener fede al realismo, alla decenza e ai nostri più cospicui interessi internazionali sembrano confermare un antico comandamento. E cioè che la nostra sovranità non è mai una solitaria via di fuga rispetto alle nostre connessioni più significative.

Al contrario, essa si esercita con qualche autorevolezza solo a patto di stare ben dentro un recinto, o almeno lungo un tragitto. C’è un vincolo, insomma. Ed è proprio quel vincolo che finisce per dare un peso ai nostri movimenti sulla scacchiera globale.

Il dopoguerra

Così andarono, del resto, le cose nel dopoguerra. Quando la coalizione centrista allestita dal democristiano Alcinde De Gasperi scelse l’Europa e la Nato come coordinate della nostra politica estera. E quando poi la maturazione di una più vasta cultura di governo da parte della sinistra dell’epoca passò rigorosamente attraverso un lungo e sofferto ripensamento della propria collocazione internazionale. In una parola, il vincolo degli alleati che ci eravamo scelti aiutò un po’ tutti a dare il meglio di sé. 

Furono anni di sudditanza? Non direi. Le classi dirigenti di quella stagione sapevano bene che l’interesse fondamentale del paese si realizzava a patto di stare ben dentro la cornice che era stata disegnata intorno a noi. E anche chi pensava che il perimetro di quella cornice dovesse essere ampliato aveva chiaro che questa impresa era possibile solo a prezzo di una conduzione delle cose che fosse accorta, prudente, circospetta.

Nessuno dei dirigenti dell’epoca, che si trovasse al governo o all’opposizione, si avventurava a suggerire strappi laceranti e neppure baldanzose (e velleitarie) manovre di destabilizzazione del quadro internazionale. Cosa per la quale ai nostri antenati dovremmo tutti un briciolo di riconoscenza.

Il vincolo esterno insomma era preso molto sul serio. E anche quando le spinte della politica erano protese ad allentarlo un pochino, ci si sapeva esprimere con il realismo dovuto ai rapporti di forza e alle condizioni di fatto. Si potrebbero citare un’infinità di episodi a questo riguardo. Ma valga per tutti l’esempio di Bettino Craxi, premier socialista, in quel di Sigonella: il rifiuto di aderire a una richiesta impropria della Casa Bianca subito accompagnato dalla inequivoca riaffermazione della nostra strategica alleanza.

Cosa stiamo perdendo

Non si vuole descrivere un mondo idilliaco, tutt’altro. Solo richiamare il fatto che anche gli attriti, i contrasti, le rivendicazioni di autonomia passavano attraverso il fitto setaccio della consapevolezza che si aveva di dover corrispondere a un sistema di equilibri che alla fine garantiva al nostro paese una forma di sicurezza di cui nessuno, proprio nessuno, pensava che fosse saggio cercare di fare a meno.

Ma è questa, per l’appunto, la virtù strategica che ora forse stiamo perdendo. La buona regola di una volta implicava la simmetria tra alleanze politiche interne e alleanze strategiche internazionali. Quella simmetria era a sua volta una forma di rigorosa disciplina politica.

Non ci si poteva sedere allo stesso tavolo senza essere ben sicuri che almeno quel minimo comune denominatore fosse messo al riparo dalle tensioni della quotidianità. E per quanto lo scontro politico potesse essere crudo, la preoccupazione di essere presi sul serio oltre i confini delle nostre mura domestiche finiva per accomunare gli avversari dell’epoca a dispetto di tutte le loro controversie.

Ora invece quell’orizzonte sembra svanito. Un po’ perché è chiaro che, a destra e a sinistra, si coltivano idee diverse su come stare al mondo. E un po’ perché la sacralità della politica internazionale finisce per ridursi al rango di una disinvolta variante della nostra eterna campagna elettorale. Con gli effetti che si possono immaginare sul nostro prestigio.

Il rischio è che per questa via si torni all’Italietta dei primi anni del Novecento, ai suoi giri di valzer, alla troppo fantasiosa varietà delle sue alleanze. E cioè a un paese che sta sulla scena internazionale senza alcun disegno strategico, sperando solo che nessuno ci chieda conto più di tanto delle nostre posizioni e dei nostri movimenti.

È ovvio che le alleanze internazionali non sono più incise nel granito che fu forgiato quella volta a Yalta, e che la nostra sorte non si gioca più al tavolo della guerra fredda. Ma proprio questa maggiore mobilità delle cose e il venir meno degli schemi troppo rigidi del dopoguerra ci costringerebbero ora a non eccedere in disinvoltura. Se non altro in ragione della gravità dei conflitti che si dispiegano nel mondo.

Insomma, urge ritrovare il bandolo di una politica estera. Che non è una forma di sudditanza verso i potenti della terra. Ma semmai un modo di non diventare sudditi noi stessi. Un rischio meno lontano di quanto non sembri.

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