La sfida fra il capitalismo autoritario cinese e quello democratico dell’occidente era già iniziata prima della pandemia. Ora si è accentuata. È la partita decisiva dei prossimi anni, dalla quale dipende il futuro dell’umanità: le possibilità di non sprofondare in nuovo conflitto armato, come avvenuto nel secolo scorso, dalle conseguenze inimmaginabili; ma anche la speranza di riuscire a fronteggiare gli enormi problemi ambientali che abbiamo davanti e, più in generale, quella di ancorare il progresso tecnologico ai diritti dell’uomo, sventando il rischio che la tecnologia si trasformi da strumento di liberazione umana al più potente mezzo di oppressione.

Di fronte a questa sfida, l’amministrazione Biden procede su due fronti. Come con l’Urss, ai tempi della guerra fredda. Da un lato c’è il contenimento militare, in maggiore continuità con l’èra Trump. Dall’altro c’è la strategia, in evidente rottura rispetto all’isolazionismo trumpiano, di una nuova grande alleanza delle democrazie, per rendere la globalizzazione più giusta e sostenibile.

Il piano globale approvato dal G7 su spinta di Biden, il Build Back Better for the World, ne è un esempio, sebbene i contorni non siano ancora molto chiari: si tratterà di mobilitare ingenti capitali per investire nei paesi emergenti sul clima, la salute, il digitale e l’uguaglianza di genere, in aperta competizione con la Nuova via della seta cinese.

Altrettanto significativo è l’impegno comune che viene ribadito sul clima, ora con il ritorno degli Stati Uniti. E forse ancora più importante (perché non simbolico) è l’impegno di donare un miliardo di dosi di vaccini ai paesi più poveri.

Dopo la Seconda guerra mondiale, vi furono accordi internazionali (Bretton Woods) e politiche nazionali che, oltre a favorire la crescita, consentirono la riduzione delle disuguaglianze. Dimostrammo così, nei fatti, che in occidente si viveva meglio che in Urss, da ogni punto di vista. Oggi, si tratta di affiancare ai diritti civili –­ che sono la discriminante fra noi e le autocrazie – i diritti sociali e ambientali: si tratta di rendere chiaro che noi non solo siamo in grado di tutelare meglio le libertà personali, ma anche di garantire società più giuste e sostenibili.

In questa sfida, l’Europa ha un duplice ruolo. Da un lato, nelle politiche economiche deve affiancare Biden fino in fondo. Qui purtroppo l’inizio non è stato esaltante: i ministri dell’Economia del G7 (in gran parte europei) hanno già ridimensionato la proposta americana di una tassa globale al 21 per cento, abbassandola al 15.

Dall’altro lato, l’Europa dovrebbe aiutare a moderare l’ala dura di Washington (e del Giappone). Non sui principi però, dove anzi è bene essere franchi (come con la condanna del lavoro forzato in Xinjiang). Ma con l’intelligenza della diplomazia. Ad esempio, evitando la scorciatoia degli embarghi e delle sanzioni, che nella storia quasi mai sono stati efficaci (e anzi hanno solo peggiorato le cose); e mantenendo viva la cooperazione economica. Su questo, sembra di poter dire che l’influenza dell’Europa al G7 sia stata benefica.

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