Negli Usa il premier israeliano parla di «buone chance» per un cessate il fuoco e spera di allargare gli accordi di Abramo anche ad altri paesi arabi. Nei raid dell’aviazione dell’Idf oltre cento morti in 24 ore. Gli Usa sanzionano la relatrice Onu Francesca Albanese
Prosegue la visita del premier israeliano Benjamin Netanyahu negli Stati Uniti, giunta al terzo giorno. Proseguono le trattative a Doha per il raggiungimento di un accordo con Hamas per il cessate il fuoco a Gaza e la liberazione degli ostaggi. E proseguono anche i raid aerei dell’Idf nella Striscia.
Negli ultimi giorni i bombardamenti si sono intensificati da nord a sud in tutto il territorio e il numero delle vittime civili aumenta di giorno in giorno. In 24 ore sono stati uccisi più di 105 palestinesi. A Beit Hanoun le truppe dello stato ebraico hanno iniziato l’ennesima operazione terrestre. Quello in corso è un attacco totale su una Striscia già ridotta in macerie ma per il momento non sta influenzando i negoziati per la tregua.
Mediatori al lavoro
A Doha i mediatori sono a lavoro senza sosta. Troppo alta la pressione da Washington per raggiungere un accordo il prima possibile. Ma la complessità del caso richiede tempo. E così ora le trattative sono concentrate soprattutto sul ritiro parziale delle forze militari israeliane.
Tel Aviv ha presentato ai mediatori in Qatar una nuova serie di mappe che illustrano la posizione futura delle truppe dello stato ebraico durante la prima fase. Finora è stato questo uno dei punti più difficili da sciogliere nei colloqui. Hamas vuole rassicurazioni e garanzie e soprattutto che Israele non abbia il controllo del corridoio di Filadelfia (anche l’Egitto respinge) e di Morag.
In serata, tramite Al Jazeera, uno degli esponenti dell’organizzazione, Taher al Nunu ha detto che Hamas ha accettato di liberare dieci ostaggi in cambio dell'afflusso di aiuti umanitari e della fine alla guerra. L’obiettivo è far entrare gli aiuti a Gaza «in modo libero e dignitoso, senza l'interferenza dell'occupazione israeliana o l'imposizione di meccanismi che ledono la dignità del popolo palestinese e contribuiscono all'esodo e alla ridistribuzione demografica della popolazione», ha detto.
E sulla necessità che le linee del ritiro delle truppe israeliane siano «delineate in modo da non incidere sulla vita e sul futuro dei cittadini, aprendo la strada alla seconda fase dei negoziati. Inoltre, sono essenziali le garanzie necessarie per entrare in questa fase».
Negli Stati Uniti, invece, il premier Netanyahu ha incontrato – per la seconda volta dall’inizio della sua visita – il presidente Donald Trump. Poi è andato al Pentagono dove è stato accolto dal segretario alla Difesa Pete Hegseth. Insieme si sono confrontati sui risultati ottenuti dai raid congiunti sui siti nucleari iraniani, ma anche sulle operazioni a Gaza. Un primo risultato del viaggio a Washington si è visto nelle dichiarazioni del Segretario di Stato Marco Rubio. Gli Usa imporranno sanzioni a Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni unite per i territori palestinesi. Rubio ha definito «illegittimi e vergognosi gli sforzi di Albanese per fare pressione sulla Corte Penale Internazionale affinché agisca contro funzionari, aziende e leader statunitensi e israeliani».
Visita silenziosa
La visita di Netanyahu è silenziosa. Le dichiarazioni sono ridotte al minimo. Poche le parole rilasciate ai giornalisti in un momento in cui la tregua sembra essere vicina, dopo l’interruzione unilaterale da parte di Israele che ha ripreso i bombardamenti lo scorso marzo.
Poco ha aggiunto l’intervista rilasciata da Netanyahu a Fox News. «Ci siamo concentrati sugli sforzi per liberare i nostri ostaggi. Siamo determinati a raggiungere tutti i nostri obiettivi: liberare tutti i nostri ostaggi, eliminare le capacità militari e di governo di Hamas e garantire così che Gaza non rappresenti più una minaccia per Israele», ha detto dopo i suoi incontri con Trump.
«Qui si aprono opportunità per ampliare il cerchio della pace, per espandere gli Accordi di Abramo. Stiamo lavorando a questo con tutte le nostre forze», ha aggiunto. E probabilmente il prossimo paese arabo ad entrare nel “cerchio della pace” sarà la Siria. Il leader Ahmed al Shara ha disperatamente bisogno di riconoscimento internazionale dopo la caduta del regime di Bashar al Assad. E di risorse economiche per ricostruire il paese.
Ma il “cerchio della pace” si allarga con la guerra o con il terrore di una guerra futura. «Io e Trump crediamo nella dottrina della pace attraverso la forza. Prima viene la forza, poi la pace. Abbiamo dimostrato molta forza e ci sembra che la pace porti molti frutti. Saremo in grado di espandere gli Accordi di Abramo, creando una realtà inimmaginabile in Medio Oriente, portando prosperità e stabilità», ha spiegato a Fox News. Si vis pacem para bellum, direbbe Giorgia Meloni.
Solo il tempo tirerà le somme di una politica aggressiva, interventista e in netta violazione del diritto internazionale. E molto dipenderà dal futuro della Palestina.
Benché Netanyahu sia convinto che «ci sia una buona chance di un cessate il fuoco» a Gaza e per Trump «è possibile a breve», non è detto che dopo i 60 giorni di tregua i raid non riprenderanno.
Cosa accadrà una volta riportati a casa gli ostaggi? Quale sarà il futuro di Gaza? Verrà riconosciuto uno stato palestinese? Quest’ultima domanda al momento è al di fuori del dibattito politico, e dopo gli attacchi all’Iran solo il presidente francese Emmanuel Macron ha sollevato la questione a livello internazionale.
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