«I veri negoziati si svolgono a Washington, non a Doha». Le parole di un funzionario anonimo palestinese rilasciate all’emittente del Qatar al-Araby rendono bene l’idea sui negoziati in corso a Doha. Per ora le trattative indirette tra Israele e Hamas che si tengono nella capitale dell’emirato non hanno raggiunto un punto d’incontro. Ed era prevedibile. «Non si è ottenuta alcuna svolta nella sessione negoziale mattutina, ma i colloqui proseguiranno e Hamas spera di raggiungere un accordo», ha fatto sapere un’altra fonte palestinese vicina ai negoziati nel pomeriggio.

Nodi da sciogliere

Hamas ha avanzato le sue richieste e i nodi da sciogliere sono ancora tanti: dal ritiro delle truppe israeliane da Gaza, ai profili dei detenuti palestinesi da liberare in cambio degli ostaggi. Per ora i numeri dell’accordo sono questi: in 60 giorni di cessate il fuoco, durante i quali Hamas si impegna a rilasciare 10 ostaggi vivi e i corpi di altri 18. In totale sono 59 gli ostaggi nelle mani dell’organizzazione palestinese a Gaza.

Resta da capire se il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, riesca a convincere il premier israeliano Benjamin Netanyahu a cedere su alcune richieste, sulle quali al momento si è mostrato intransigente, soprattutto sulla posizione delle sue truppe una volta che la guerra sarà conclusa.

La visita a Washington servirà a Trump per ribadire il suo sostegno nei confronti dell’alleato israeliano, per discutere insieme dei risultati ottenuti con i raid militari contro i siti nucleari italiani e pensare insieme al futuro della Striscia. A questo proposito, in un’intervista concessa al giornalista statunitense Tucker Carlson, il presidente iraniano Masoud Pezeshkian ha detto ieri che Israele ha tentato di assassinarlo. E ha spiegato che il programma nucleare di Teheran non ha mai avuto l’obiettivo finale della bomba atomica, in quanto sarebbe contrario alla religione islamica.

Ma oltre alla questione iraniana e alla valutazione dei danni inflitti dalle bombe statunitensi e quelle israeliane, Trump vuole raggiungere un accordo su Gaza il prima possibile. Il tempo scade, la scorsa settimana si è esposto affermando su Truth che spera di raggiungere una tregua entro una settimana. La tensione si percepisce anche dal fatto che non sono previsti punti stampa o apparizioni pubbliche dei due leader. Evitare ogni domanda scomoda dei giornalisti che possano portare a dichiarazioni sopra le righe e minare la riuscita delle trattative a Doha. Per questo motivo il programma di Netanyahu a Washington è molto serrato. Prima incontrerà l’inviato statunitense per il Medio Oriente, Steve Witkoff, alla Blair House, poi il segretario di Stato americano Marco Rubio. Infine, l’incontro alla Casa Bianca con Donald Trump prima di una cena privata.

A Tel Aviv e nel resto di Israele parte dell’opinione pubblica attende con ansia che si raggiunga un accordo per la liberazione degli ostaggi. Anche gran parte del governo sembra compatto, tranne l’ala più estremista guidata dal ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir.

L’ordine di Katz

Durante un incontro con il proprio partito, Otzma Yehudit, ha detto che l’accordo per il cessate il fuoco «sul tavolo è pericoloso e nuoce alla sicurezza di Israele». Secondo Ben Gvir, «questo è un accordo che dà ad Hamas ciò che non è riuscita a ottenere in battaglia».

A minare la riuscita delle trattative potrebbe essere l’ordine dato all’Idf dal ministro della Giustizia, Israel Katz, di creare una «città umanitaria» sulle rovine di Rafah nel sud di Gaza.

A quanto riportano i media israeliani, l’obiettivo è trasferirci dentro 600mila palestinesi, provenienti dall’area di al-Muwasi. Una volta all’interno non avranno il permesso di andarsene. Di fatto è la creazione di un enorme campo profughi dentro Gaza. E la sua costruzione avvenire già durante i 60 giorni del cessate il fuoco. Non è ancora chiaro chi sarà a gestire la consegna degli aiuti umanitari dentro al campo, per ora l’Idf si occuperà della sicurezza del perimetro.

Il fronte interno a Gaza

Nel frattempo, nella Striscia proseguono i bombardamenti dell’aviazione israeliana. Nella giornata di ieri almeno 26 palestinesi sono stati uccisi in attacchi che hanno colpito a Beit Lahiya, Gaza City, il campo profughi di Bureji e Rafah. Ieri è stata diffusa la notizia secondo cui Hamas avrebbe perso l’80 per cento del controllo della sicurezza a Gaza, incalzato non soltanto dalle operazioni militari israeliane ma anche dai gruppi rivali armati da Israele.

Tra questi c’è quello guidato da Yasser Abu Shabab della tribù di Tarabin, che parlando al quotidiano Ynet ha detto: «Il mio clan è attivo in un'area che si estende dal Negev al Sinai. Siamo una grande famiglia e tutti sostengono me e le mie azioni». Dopo aver negato i legami con lo stato ebraico, ha aggiunto: «Siamo uomini di pace e non vogliamo la guerra - ha detto - Siamo legati solo all'Autorità nazionale palestinese, niente di più». E ancora: «Non chiamateci milizia. Siamo gruppi che combattono il terrorismo nella Striscia. Mi chiamano criminale, ladro, membro dell’Isis, tutto per spaventare la gente e impedire che mi contatti». Secondo Abu Shabab la fine di Hamas «è vicina».

La scorsa settimana il gruppo che controlla Gaza aveva lanciato un ultimatum contro il clan locale. Per il momento, però, le milizie non hanno la forza per portare avanti una guerra civile mentre sono in corso i combattimenti con le truppe israeliane.

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