Secondo la definizione più scolastica, l’espressione “islam politico” denota l’uso della religione islamica per giustificare l’azione politica. Come ricostruito da Charles Hirschkind, l’accezione corrente di questa espressione risale agli anni Settanta per identificare l’irruzione della religione islamica nella sfera secolare della politica, distinguendo quindi questa serie di manifestazioni dall’islam prettamente inteso come fede e pratica religiosa.

Nonostante infatti si sostenga che l’islam sia per sua costituzione estraneo a una qualche forma di separazione tra Dio e Cesare in quanto Maometto era capo spirituale e politico allo stesso tempo, è solo dai primi anni Settanta che si è avuta una proliferazione di partiti e movimenti di matrice islamica in nord Africa e medio oriente senza precedenti nella storia contemporanea.

I motivi del successo

Le radici di questa ondata affondano nell’oppressione del periodo coloniale e, soprattutto, nella disillusione verso la governance dei nuovi stati nati dai processi di indipendenza nazionale tra gli anni Cinquanta e Sessanta.

Il successo poi dei movimenti islamici nell’imporsi, nel corso dei decenni, come principali forze di opposizione al potere autocratico in nord Africa e in medio oriente, lo si deve anche agli stessi dittatori della regione che, a partire dagli anni Settanta, ne hanno incoraggiato la proliferazione per spezzare la forza delle sinistre. Sinistre che negli stessi anni, sull’onda di quanto stava accadendo nel resto del mondo, erano cresciute al punto tale da monopolizzare l’intero fronte delle opposizioni rappresentando così una reale minaccia per il mantenimento dello status quo.

Le formazioni più note

I movimenti e i partiti islamisti più noti al grande pubblico, anche in virtù dei successi elettorali ottenuti dai primissimi anni Novanta fino all’apoteosi delle elezioni che sono seguite alle sollevazioni del 2011, sono certamente quelli afferenti alla Fratellanza musulmana, ovvero l’organizzazione sunnita fondata da Hasan al-Banna nel 1928 in Egitto che si è poi espansa su tutta la regione per approdare anche negli altri continenti.

Oggi tra i principali esponenti della Fratellanza vi sono il partito egiziano Libertà e Giustizia, che tra il 2011 e il 2012 ha vinto le elezioni parlamentari, sfiorando il 37 per cento, e quelle presidenziali con Mohamed Morsi (poi deposto con il colpo di stato militare nel 2013 a seguito del quale il partito è stato messo al bando); il partito tunisino Ennadha, prima forza politica nel post Primavera araba e tuttora importante attore politico (il capo politico Rachid Gannouchi è presidente dell’assemblea parlamentare); il partito di Giustizia e sviluppo in Marocco, che si è reso artefice del primo vero turnover di governo nel 2011; e infine il Fronte di azione islamica in Giordania, che, nel 1989, è stato tra i primi partiti islamisti a riscuotere un considerevole successo elettorale.

Al di là di questi casi più noti, la galassia che costituisce l’islam politico annovera anche altre formazioni quali, ad esempio, i partititi che afferiscono all’islam sciita, come il libanese Hezbollah, e, tornando nella sfera sunnita, i partiti e movimenti salafiti che, rispetto a quelli della Fratellanza, si caratterizzano per una lettura più integralista dei dettami islamici anche per l’organizzazione sociale e politica. Tra essi vi sono il partito egiziano al-Nour, che nel 2011 è risultato il secondo partito più votato, il Tunisino Jabat al-Islah e il tristemente noto movimento al-Qaeda.

Multivocalità della dottrina

L’eterogeneità delle formazioni ascrivibili all’islam politico e la loro fluidità ha a che fare con quella che Alfred Stepan ha definito la «multivocalità delle tradizioni religiose» secondo la quale ogni tradizione e dottrina religiosa ha al proprio interno elementi che possono essere usati per legittimare le più disparate politiche a seconda del contesto storico, politico e socio economico.

Così, ad esempio, se il bene musulmano dell’unità dei popoli musulmani ha fatto sì che i partiti fossero a lungo invisi dagli islamisti, la partecipazione dei partiti islamici alla vita pubblica è stata poi giustificata come necessaria per il compimento di una vita in linea con i dettami islamici. Allo stesso modo, il medesimo concetto di “sforzo” ha avallato sia azioni violente (e la cosiddetta guerra agli infedeli) sia opere di revisione ideologiche per adattare i dettami della legge islamica alla modernità e al contesto democratico.

Per orientarsi in questa moltitudine di formazioni politiche di stampo islamista sono stati abbozzati diversi criteri di classificazione come, ad esempio, la struttura organizzativa, la dottrina di adesione o il principale strumento di lotta. Tra queste strategie classificatorie, le più interessanti da una prospettiva politologica sono quelle che guardano l’apporto di questi partiti alla polity, ovvero alla comunità politica largamente intesa nei suoi aspetti procedurali e sostanziali. Con questo approccio, Bokhari e Senzai tripartiscono il campo islamista tra coloro che partecipano alla vita politica del paese in cui vivono, coloro che lo fanno a delle condizioni, e quelli che invece rifiutano ogni forma di partecipazione. In questa e altre analisi è interessate però notare che spesso i singoli partiti non restano incastrati in una singola categoria per tutta la loro esistenza, ma migrano dall’una all’altra.

In particolare, si è vista un’evoluzione da un atteggiamento antagonistico (e talvolta con ricorso alla violenza) a uno più partecipativo che, come è stato osservato, favorisce i processi di democratizzazione e consolidamento democratico. È stato così, ad esempio, per i partiti della Fratellanza che dall’avulsione verso l’ordinamento costituito e la stessa logica partitocratica (infatti al tempo si definivano solamente come movimenti), hanno finito per parteciparvi e sono dipinti da decenni ormai come il volto moderato dell’islam politico.

Il caso di Ennahdha

Emblematico, in tal senso, è il caso di Ennahdha, che da movimento anti sistema negli anni Settanta ha fatto il suo ingresso in politica alla fine degli anni Ottanta e, dopo trent’anni di repressione, si è reso protagonista del processo di democratizzazione tunisino tra il 2011 e il 2021, per poi costituirsi come uno dei baluardi contro la deriva autoritaria intrapresa dal presidente Saied.

In seguito, siccome come spesso si dice la storia si ripete, si parla oggi di “ikhwanizazzione” (ikhwan è la translitterazione della parola araba “fratellanza”) dei partiti salafiti per indicare il loro addivenire a posizioni partecipatorie alla stregua di quanto fatto dai partiti della Fratellanza anni prima. Infatti, se fino alle sollevazioni del 2011 i salafiti hanno rifuggito la partecipazione politica rinnegando la legittimità degli stati nazionali e della democrazia (o qualsivoglia forma di governo non basata sulla Shari’a), una delle importanti novità delle elezioni che sono seguite alla Primavera araba è stata proprio la partecipazione di questi partiti.

Le ragioni di questo cambio di rotta sono, ovviamente, molteplici, ma hanno a che fare con il fatto che i salafiti, alla luce di quelle inedite aperture politiche, non volessero perdere l’occasione di poter contribuire ai processi di costruzione dello stato e di identità nazionale, quest’ultima largamente soffocata dal monopolio della narrazione autoritaria (e spesso di carattere secolare).

Sebbene la partecipazione dei partiti islamici sia stata a lungo considerata un paradosso della democrazia nella misura in cui essa consentiva l’ingresso a formazioni che volevano sostituirla con uno stato teocratico, si è invece notato che, col tempo, questo ha giovato all’installazione e al consolidamento della democrazia. Nel primo caso, come dimostrano su tutti il caso tunisino e quello indonesiano, la partecipazione dei partiti islamici al progetto democratico conduce alla loro adesione e all’integrazione delle masse di fedeli al nuovo ordine. Nel secondo caso si è visto che, col tempo, la competizione elettorale democratica (o una sua imitazione, come testimoniano i casi di Giordania e Yemen) induce i partiti islamici a moderare i loro programmi. Questo, perlomeno, è quanto osserviamo in questi anni nei sistemi politici in nord Africa e medio oriente alle prese con l’islam politico, e, in realtà, non è poi così distante da quanto si è verificato nell’Europa del secondo dopoguerra – in particolare in Italia – dove la democrazia ha dovuto trovare un’accomodazione per e tra i partiti cristiani che non accettavano in toto i principi di secolarizzazione e pluralismo.

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