Il 18 maggio del 2024 ricorrono l’80° anniversario della tragica deportazione dei tatari di Crimea nel 1944 e il decennale dell’annessione illegale della Crimea da parte della Russia. Questi periodi difficili della storia della penisola sono indissolubilmente legati al destino dei tatari di Crimea. E alla mia vita.

Ho passato l’infanzia in Uzbekistan, lontano dalla mia terra d’origine, dove le autorità sovietiche hanno deportato i tatari di Crimea nel 1944, in un atto genocida che ha mietuto vittime e distrutto famiglie. La deportazione portò immani sofferenze alle popolazioni indigene della Crimea e le privò della loro patria.

Sono la nipote di una donna che all’età di 13 anni fu strappata dal suo villaggio natale, Ayserez, e deportata in terra straniera. Questa non è solo la storia della mia famiglia, ma anche un importante promemoria della capacità di sopravvivenza dei tatari di Crimea e della loro incessante lotta per la giustizia di fronte alle avversità.

Mia nonna era la figlia maggiore della famiglia Dzhemilev, che aveva 6 figli. Spesso raccontava a noi, suoi nipoti, della sua terra natale, della Crimea e di quel terribile giorno del 18 maggio. I suoi racconti rimandano al periodo che aveva preceduto quel terribile giorno del 1944, quando la lingua tatara di Crimea era diffusa ovunque nella penisola. Ci ha parlato delle tradizioni e della cultura del nostro popolo e di come i miei compatrioti vivevano in armonia nella loro terra.

Mia nonna si chiamava Shevkiye, e la sua infanzia è stata piena di difficoltà e tragedie. Negli anni Trenta del secolo scorso, il regime sovietico iniziò una dura repressione contro i tatari di Crimea, con espropri forzati. La famiglia di mia nonna possedeva vigneti e una caffetteria: per gli standard sovietici era considerata ricca. Perciò la famiglia fu spogliata dei beni e deportata nella remota regione di Arkhangelsk. In questo orrore perse la vita la sorella di mia nonna, Suvade, di due anni. La famiglia tornò in Crimea qualche anno dopo, ma senza diritto alla proprietà.

Più tardi, nel 1937-1938, le autorità sovietiche misero in atto una pulizia etnica tra i tatari di Crimea. Durante questo periodo buio, etnografi, scrittori e artisti tartari di Crimea furono uccisi a colpi di pistola. Infine, queste azioni punitive culminarono nella pulizia etnica del 18 maggio 1944, quando l’intero popolo fu deportato.

15 minuti d’inferno

Alle 5 di mattina di quel giorno, i soldati sovietici bussarono alla porta della casa di mia nonna. Si presentarono con le accuse di tradimento del popolo tataro di Crimea, sostenendo che avevamo collaborato con i nazisti. Si trattava solo di una menzogna, un pretesto per la pulizia etnica degli abitanti indigeni della Crimea.

Alla famiglia di mia nonna furono concessi solo 15 minuti per prepararsi. La mia bisnonna, durante questi terribili 15 minuti, che ricorderà per sempre, poté solo svegliare i bambini e chiedere alla figlia maggiore, Shevkiye, di 13 anni, mia nonna, di aiutarla a radunare i più piccoli. Il figlio più piccolo aveva solo un anno. Con la cupa sensazione che i soldati li stessero conducendo alla morte, una madre e i suoi sei figli furono ammassati in carri bestiame senza cibo né acqua e spediti verso l’ignoto.

Nei vagoni bestiame c’erano persone di ogni età e condizione, soprattutto bambini e donne; gli uomini erano al fronte. Mia nonna mi ha raccontato che i soldati feriti, che avevano perso gambe e braccia combattendo contro i nazisti ed erano appena tornati dalla guerra, venivano immediatamente fucilati. È così che morì il vicino di casa di mia nonna, che si chiamava Ahmet; i suoi figli piccoli morirono durante il viaggio verso l’ignoto. Il doloroso viaggio verso i luoghi di esilio durò 20 giorni. Senza cibo né acqua, le persone morivano lungo il percorso; i soldati sovietici gettavano i loro corpi fuori dai vagoni bestiame, non permettendo nemmeno alle famiglie di salutarli. Questa tragedia non risparmiò nemmeno la famiglia di mia nonna: all’arrivo in Uzbekistan, sua sorella minore Hatidzhe era morta di fame, all’età di 5 anni.

Metà della popolazione, il 46 per cento dei tatari di Crimea, morì durante questo atto di genocidio. In condizioni di fame e disperazione, mangiando erba e bevendo acqua di fogna, le persone morivano e i loro corpi diventavano preda degli sciacalli. È stato un inferno in terra, che ha inghiottito la famiglia di mia nonna e molte altre.

In esilio, i tatari di Crimea sopravvissuti hanno iniziato subito a lottare per il ritorno alla loro patria. Sia io che i miei genitori siamo nati e cresciuti in Uzbekistan, sognando costantemente di tornare nella nostra patria storica in Crimea. I miei genitori, come molti altri nei loro luoghi di esilio, hanno dovuto affrontare il divieto di imparare la loro lingua e la loro storia. Tuttavia, hanno scelto la via della resistenza. La nostra casa è stata perquisita e i parenti sono stati perseguitati e persino imprigionati per il loro attivismo. Ad esempio, mia zia ha dovuto subire 17 perquisizioni e mio zio ha trascorso 15 anni nei campi sovietici, di cui 303 giorni di sciopero della fame. Sono stata testimone della lotta di un popolo che mi ha portato via l’infanzia: la vita della nostra famiglia era dedicata al tentativo di ritornare in Crimea.

Centinaia di attivisti tatari hanno lottato disperatamente per avere la possibilità di tornare nella loro patria storica. Ma mentre al nostro popolo rimaneva il divieto di tornare, la Crimea si popolava di persone provenienti dalla Russia e alle città e ai villaggi tatari dell’Ucraina venivano dati nomi russi.

Vite dedicate alla lotta

Per quasi 50 anni, in una terra straniera, generazioni di tatari hanno lottato per il loro diritto di tornare in Crimea. Alcuni dei nostri attivisti sono morti nelle prigioni sovietiche uzbeke, dedicando la loro vita alla lotta e non facendo mai ritorno a casa.

Alcuni connazionali, nonostante i divieti, hanno cercato di tornare in Crimea alla fine degli anni Sessanta, ma sono stati nuovamente deportati.

Solo dopo il crollo dell’Unione Sovietica, nel 1991, i tatari di Crimea hanno iniziato a tornare in massa nella loro patria storica. Poi, nel 2014, la Russia ha annesso la Crimea, violando l’integrità territoriale dell’Ucraina. I tatari hanno sempre assunto una posizione filoucraina e filoeuropea. Per mia nonna, che era finalmente tornata a casa in Crimea dopo aver sopportato tante repressioni, si trattava di una nuova tragedia. Essendo stata nuovamente testimone dell’invasione russa nel 2014, non riuscì a sopportare questo nuovo shock e morì improvvisamente, sopraffatta dal dolore e dalla disperazione. Sua sorella, anch’essa deportata nel 1944, ha perso la memoria in seguito all’orrore dell’annessione della Crimea nel 2014.

La repressione oggi

Oggi, a 10 anni dall’annessione, il popolo tataro di Crimea continua a subire repressioni nella propria terra. La nostra cultura e la nostra lingua rischiano di scomparire e la commemorazione della tragica data del 18 maggio 1944 è stata proibita. Fino al 2014, noi tatari eravamo soliti scendere in piazza per onorare la memoria dei nostri compatrioti morti in questo giorno, ma dopo l’annessione russa ci è stato proibito di onorare la memoria dei deportati.

Le repressioni contro il mio popolo continuano, con centinaia di tatari di Crimea e ucraini arrestati illegalmente. Ad esempio, la mia connazionale Leniye Umerova, una ragazza tornata a casa in Crimea durante l’invasione dell’Ucraina il 24 febbraio 2022, per prendersi cura del padre malato a cui era stato diagnosticato un cancro, non è mai riuscita a raggiungere la Crimea: le forze russe l’hanno arrestata al confine con la Georgia, accusandola di spionaggio. Ora rischia 20 anni di carcere. Qual è la sua colpa? Ci sono centinaia di casi simili che riguardano i miei connazionali.

Centinaia di persone innocenti sono state condannate illegalmente a pene detentive che vanno dai 10 ai 20 anni. Ci sono più di 9.000 casi registrati di violazione illegale dei diritti umani in Crimea. Ciò indica che il genocidio contro il popolo tataro di Crimea continua ancora oggi.


Traduzione di Monica Fava

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