In altre epoche politiche, una storia come quella del deputato newyorchese George Santos, neoeletto di origine brasiliana avrebbe stroncato qualunque carriera.

Difficile trovare un altro candidato con così tante menzogne a suo carico su un vasto numero di argomenti: il trentaquattrenne Santos ha detto cose false praticamente su tutto, a partire dalle sue origini, passando per la sua istruzione e la sua esperienza lavorativa, le sue dichiarazioni al fisco e perfino la morte di sua madre, che secondo un suo tweet sarebbe morta nell’attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001.

Da quando queste criticità sono emerse, ovvero dalla fine dello scorso mese, è iniziata una serie di giustificazioni tragicomiche da parte sua, ivi compresa quella che riguarda il suo retaggio ebraico, rielaborato come una generica “vicinanza” alla comunità, così come per ciò che riguarda l’orientamento sessuale.

Sono seguite numerose richieste di dimissioni da parte della contea di Nassau, dove si trova il suo collegio elettorale, ma Santos è stato inamovibile, non rispondendo a richieste di chiarimento, anzi, ha ignorato anche le indagini in corso sul suo conto che provengono anche dal Brasile, dov’è ripartito un procedimento per truffa nei suoi riguardi.

Occasione persa

Nonostante tutto questo, è alquanto improbabile che Santos si dimetta. Allo stesso modo, è difficile calcolare le tempistiche dei processi che pendono sulla sua testa. Eppure, sarebbe piuttosto facile rimuoverlo.

Si sarebbe potuto fare prima del suo insediamento, avvenuto lo scorso 3 gennaio, ed è così che è avvenuto nel 1967 nei confronti del deputato newyorchese Adam Clayton Powell, accusato di malversazione di fondi pubblici. In anni più recenti, l’espulsione del rappresentante James Traficant dell’Ohio, dichiarato colpevole di vari reati di natura fiscale nel luglio del 2002.

Tutto avvenne in modo liscio, ma per Santos non dovrebbe finire allo stesso modo: in quest’ottica si deve leggere la sua difesa da parte dello speaker della Camera dei rappresentanti Kevin McCarthy, che si è rifiutato esplicitamente di giudicarlo durante un’intervista televisiva. Il motivo è presto detto: l’esile maggioranza repubblicana.

Qualora Santos si dimettesse, si perderebbe un prezioso voto sui 222 a disposizione dello speaker. Non solo: ci sarebbe un’elezione suppletiva che quasi sicuramente eleggerebbe un democratico, dato che il distretto si trova alle porte di New York e nel 2020 ha scelto Joe Biden con il 54 per cento dei voti.

Non è un caso isolato

Quindi Santos ha deciso di seguire una tendenza già presente nella politica americana: se le menzogne aiutano la causa del proprio gruppo di appartenenza, non sono necessariamente un male.

Un’idea presente nei manuali di comunicazione politica sin dagli anni ’50, quando in California i primi professionisti del settore consigliavano di attaccare l’avversario: anche una smentita avrebbe messo in difficoltà l’avversario.

Così per anni il partito Repubblicano californiano è riuscito a eleggere governatori come Ronald Reagan o Arnold Schwarzenegger, nonostante la maggioranza degli elettori fosse registrata nelle fila del partito democratico.

Su scala nazionale, impossibile non fare i conti con il trumpismo. Donald Trump ha evitato per anni di rendere pubbliche le sue dichiarazioni dei redditi, fino allo scoop del New York Times dell’autunno 2020.

Anzi, la cosa non l’ha affatto indebolito agli occhi dei suoi elettori: celebre la risposta all’accusa di Hillary Clinton durante un dibattito durante le presidenziali del 2016, quando affermò che pagava poche tasse “perché era intelligente”. Il mood menzognero però, fino ad oggi, sembrava essere benefico solo per Donald Trump.

Altri candidati, come il repubblicano Roy Moore, in corsa per l’Alabama nel 2017 e accusato di molestie sessuali, non riuscirono a capitalizzare queste debolezze. Alle ultime elezioni, altri emuli di Donald Trump come il medico televisivo Mehmet Oz e l’ex campione di football non sono stati eletti.

Ad appesantire la posizione degli esponenti citati qui sopra però c’è stato anche il loro estremismo politico: tutti avevano posizioni politiche ultraconservatrici. Santos no, anzi, ha dichiarato di essere omosessuale e non ha smentito di aver indossato abiti femminili durante un party di drag queen quando viveva in Brasile.

Non ha mai espresso critiche alla leadership del suo partito e non si è schierato nel duello imminente tra Donald Trump e il governatore della Florida Ron DeSantis.

Santos, quindi, ha deciso di fare tesoro della situazione e di confermare un precedente degli ultimi anni, sfruttato anche dal governatore dem della California Gavin Newsom, che spesso ha fatto spallucce quando è stato colpito da accuse dure, come quando ha violato il lockdown da lui stesso imposto nell’autunno 2020 per cenare in un lussuoso ristorante della Napa Valley, semplicemente accusando i critici di essere dei “soldatini trumpiani”.

Sopravvivere agli scandali resistendo alle richieste di dimissioni quindi paga, se le posizioni sono funzionali al proprio partito di appartenenza. George Santos probabilmente è solo il primo politico di una lunga serie.

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