Questo scritto ha anzitutto un brutto nome, perché «pezzo» è lessico del gergo da cui avresti attinto con orrore; non è un «coccodrillo», però, perché lo si sarebbe dovuto preparare in anticipo e poi impastare con qualche altra locuzione di pronto uso: il mondo perde un grande scrittore prestato allo sport, da oggi siamo più soli.

Non va bene neppure perché usa la prima persona e se voi al Giorno, dico tu, capitan Brera, Mario Fossati, Pilade Del Buono e – fuori dallo sport - Giorgio Bocca coniugavate spesso l’io, ora non si fa. Per bon ton, dicono, ma forse è solo perché nessuno osa mettersi in competizione.

Gianni Clerici non c’è più e queste occasioni si usano a mo’ di scusa per infilarci un «mi ricordo di quella volta tu, (Lapo) Gianni ed io». Non voglio essere da meno e allora come potrò dimenticare la spedizione a Marrakech al sèguito della Coppa Davis, tu con la t-shirt sulla testa a mo’ di Lawrence d’Arabia ad ammirare il rovescio incantato di Hicham Arazi, io a guardare non la partita ma te.

Perché non mi pareva vero, di poterti porgere la classifica di Volandri o qualche altro stupido dato che tu, saggiamente, demandavi ai nozionisti. Oppure la prima volta che mi permettesti di violare - senza accredito - la sala stampa a Monte Carlo: io minorenne e armato di zainetto coi panini, tu seduto in fondo a ticchettare «perché le partite di cui scrivo le guardo solo dal vivo, mai con l’apparecchio».

Il tuo modo di appellare il televisore. Accanto a te Rino, a chiedermi le generalità. Di Alba, sono: come tengono a ricordare pure qui, al Domani, sotto ogni firma, e dove sono così gentili da ospitarmi a patto di non usare quel passato remoto che amavi, come ogni liceale nostalgico dell’aoristo. E quando Tommasi mi fece, pardon, mi ha fatto rilevare che dalle mie parti viveva un certo maestro Montevecchi, tu lo hai rimbrottato: «Ma quale Montevecchi, Tommasi! Fenoglio! Ad Alba c’era Beppe Fenoglio!»

Ecco: forse è meglio far parlare te, di te. Ho ritrovato quel nastro di qualche anno fa, quando avevi dato alle stampe «Quello del tennis, la mia bio-eterografia, perché scrivo di me ma soprattutto di gente più importante». Figlio di industriali comaschi «che mi davano da mangiare senza bisogno di fare altro», il Gianni (con l’articolo, come si fa dalle sue parti) sarebbe potuto essere tutto, o anche nulla.

La carriera

Atleta (disputò il primo turno a Wimbledon 1953), scrittore, giornalista, autore teatrale, commentatore tivù con il sodale Tommasi, ma anche quasi deputato per volontà di Pannella, quasi disegnatore, quasi botanico, quasi mercante d’arte. «Invece ho vissuto l’esistenza del dilettante, nel senso antico del termine: uno nato da buona famiglia, cui fu concesso il lusso di attività che non avessero a che fare col lavoro. Essendo l’ultimo erede dei Clerici borghesi, mi son messo a fare il giornalista. Direi per scarsissima fiducia nelle mie possibilità e, insieme, per un obbligo sociale di guadagnare qualcosa». E così la scelta della scorciatoia della letteratura da quotidiano, che Gioàn Brera definiva frustrante perché foriera “di soldi e applausi dagli analfabeti”.

Come ogni provocatore raffinato, sapevi discettare delle mutandine di Steffi Graf e dello Swann di Marcel Proust con identica disinvoltura. Quando in tivù inauguravi le celebri telechiacchiere con «Bongo Bongo Bongo, stare bene solo al Congo», te la ridevi degli indignati e indicavi nella «assenza di ironia, la vera volgarità».

La volta che non ti ho più visto farti a piedi i tornanti dal Jimmy’z all’adorato Country Club di Monaco, che il cupo giacobinismo dei tuoi presunti epigoni rievoca solo per ricordare quanti tennisti ci aprono un conto pur di schivare il fisco, ho capito che qualcosa non andava. Tu che ancora sracchettavi e nuotavi a novant’anni, perché la vita sul divano non era vita.

Avevo fatto in tempo a chiederti, anzi, a supplicarti una speranza per il futuro dei giornali. «E chi lo sa», mi avevi risposto. «Però, una volta, ho conosciuto per sbaglio a New York, dopo aver giocato un doppio con David Dinkins, il sindaco nero che faceva deviare gli aerei perché non passassero su Flushing Meadows durante il torneo, il boss del New York Times. Mister Sulzberger. Mi disse: “Guardi che noi, tra dieci o quindici anni, non ci saremo più”. Si era sbagliato: la carta c’è ancora. Io non sono in grado di immaginare cosa capiterà, ma mi riesce difficile pensare che non possa sopravvivere una forma di scrittura. O qualcosa di complementare ad essa». Con la “d” eufonica che, su di te, stava come un frac a Fred Astaire.

Restano poche righe, le ho sprecate quasi tutte e non se ne consumano altre per ribadirlo: questo pezzo è proprio un inno a ciò che non va fatto. Però ecco: leggetelo, Gianni Clerici. 500 anni di tennis nelle sue infinite ristampe, le raccolte delle cronache degli Internazionali d’Italia per Rizzoli, la summa delle migliori column da Wimbledon per Mondadori.

Cercatevi i suoi interventi su YouTube, come la teoria sulla stupidità aizzata dalle telecamere, durante un match del beneamato Roger Federer. E, al giovane che ipotizzasse omofobia, razzismo o altri –ismi meritevoli di disdegno, lascio – insieme alle scuse per questo sproloquio - una delle frasi che mi convinsero a tentare la sua carriera: «Se fossi un po’ più omosessuale di come sono, io dalla volée di John McEnroe mi farei accarezzare».

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