Forse non capiamo gli ucraini perché in noi il senso di “nazione”, inteso come ideali e percorsi condivisi, continua a essere debole. A parole sappiamo essere “nazionalisti”, soprattutto quando evochiamo il destino di una nazione le cui radici affondano, di volta in volta o allo stesso tempo, nella romanità, nella cristianità, nell’etnia, nella lingua più bella, nella cucina più buona, nello stile più elegante del mondo.

Ma la vicenda di un popolo che combatte, e muore, per la sua libertà, oltre che per quella di tutta Europa, dell’Occidente e per il futuro della democrazia, quella ci smuove poco. Tantopiù se per farlo questo popolo sostiene uno scontro furibondo contro un nemico che è più forte in maniera schiacciante.

Lì ci viene in soccorso anche l’atavico cinismo, il «chi glielo fa fare?». Che per alcuni questo cinismo vada poi sottobraccio con l’esibizione di un pacifismo assoluto non importa: c’è chi ama così tanto le parole d’ordine quanto poco è disposto a obbedire alle leggi, ai principi e persino alla propria coscienza.

Paura del futuro 

Proprio come i russi, gli italiani vivono nella paura del futuro (del quale di rado pensano di poter essere artefici), nella critica costante del presente (il cui miserabile stato è sempre colpa degli altri) e nella mitizzazione del passato (poco importa quanto inventato).

Questo rapporto con il loro tempo che gli italiani hanno come sentimento collettivo cozza poi con le storie individuali di tante e tanti che conosciamo personalmente, che non sono così e non si comportano come se il flusso del tempo non esistesse, come se il presente fosse la sola dimensione rilevante, in una sospensione che non ha mai fine.

Perché gli italiani, come individui, spesso agiscono in maniera più ardimentosa, nobile e illuminata di quanto credono, e soprattutto sono migliori di quanto pensano di essere come popolo: meno cinici di come si rappresentano e di come un dibattito pubblico da bar e una serie di capipopolo di quart’ordine li descrive per nascondere la propria inadeguatezza. Ma se lo dimenticano, ce lo dimentichiamo.

O forse facciamo una tremenda fatica a passare dalla prospettiva individuale, se pure nobile, a quella collettiva.

Disposti a morire (e a uccidere)?

A self-propelled artillery vehicle fires near Bakhmut, Donetsk region, Ukraine, Wednesday, Nov. 9, 2022. (AP Photo/LIBKOS) Associated Press/LaPresse Only Italy and Spain

Per quanto tutti ci auguriamo che l’orrore della guerra venga risparmiato a noi e alle generazioni che verranno, non possiamo evitare di confrontarci con la domanda definitiva: «Per che cosa siamo disposti a morire e a uccidere?»

Possiamo anche decidere che non c’è nulla per cui vale la pena combattere mettendo a rischio la vita, possiamo anche avere fede in un irenismo integrale e rifiutare, a prescindere, di usare la forza, possiamo fare del comandamento “non uccidere” una prescrizione assoluta che non tollera eccezioni.

Dobbiamo però essere consci che la via della “testimonianza” è una scelta individuale, poco efficace rispetto alla sopravvivenza di un “popolo” in quanto tale – cioè di un soggetto politico.

Si può scegliere di vivere da servi su questa terra, nell’intima, radicata, profonda convinzione personale, e in quanto tale rispettabile, che la vera libertà sia quella dell’adesione a una qualche fede.

Ma un popolo esiste in quanto libero, in quanto capace di autodeterminarsi, vive finché è capace di lottare per la propria libertà: altrimenti cessa di esistere come popolo. 

Il posto della guerra

Affinché l’Europa torni a essere il posto della pace, piuttosto che maledirla e attardarci in inutili ritualità dovremmo ripensare qual è il posto della guerra nella prospettiva della nostra vita.

Non della guerra scelta, non della guerra come forma “ordinaria” di continuazione della politica con altri mezzi, ma della guerra come strumento ultimo al quale affidare la difesa della nostra libertà. 

A chi teme che questo significhi riaprire le porte del tempio di Marte, consentire al dio della guerra di tornare tra noi e così apparecchiarci a un mondo di conflitti tra popoli armati, vorrei solo ricordare che la libertà è un concetto che affratella.

Non c’è nulla, nell’amore per la nostra libertà, che non si concili con la libertà degli altri. La dimensione pacifica della libertà dei popoli è legata alla natura libera delle loro istituzioni.

È in quanto forma di pacificazione interna, di risposta più evoluta alla prospettiva della guerra civile, che la democrazia rende possibile la pace con gli altri regimi democratici.

Il nemico

A caviar vendor waits for customers inside a market during a power outage in central Kyiv, Ukraine, Wednesday, Nov. 9, 2022. (AP Photo/Bernat Armangue) Associated Press/LaPresse Only Italy and Spain

Come ricordava Carl Schmitt, l’essenza irriducibile della “categoria del politico” sta nella designazione dell’amico e del nemico: dell’amicus e dell’hostis, il nemico pubblico, il nemico della res publica.

La rimozione dell’hostis non trasforma chiunque in amicus, ma spalanca le porte della polis all’inimicizia privata, alla dimensione della lotta di tutti contro tutti per il trionfo dei propri interessi particolari, dove l’inimicus prende il posto dell’hostis.

La fine del “politico” non porta alla pace universale, ma predispone le condizioni per il ritorno della guerra civile. Ecco perché fissare dove corre il mobile confine tra gli amici e i nemici, stabilire qual è il criterio con cui definiamo chi ci è amico e chi ci è ostile, è un esercizio al quale non possiamo sottrarci.

Negli ultimi settantasette anni abbiamo lavorato per allargare la sfera dell’amicizia il più possibile e per ridurre specularmente quella dell’ostilità. Lo abbiamo fatto ampliando e rafforzando la democrazia e la libertà. Non a scapito e detrimento di queste ultime. 

Anche se non possiamo sfuggire alle responsabilità che ereditiamo dal nostro passato di “vecchio Occidente”, allo stesso modo non possiamo ignorare una responsabilità che viene dal nostro presente di “nuovo Occidente”, quella cioè nei confronti del futuro della democrazia e della libertà: perché se non lo faremo noi non ci sarà nessuno a difenderlo.

Questo è il senso della guerra in corso in Ucraina ed è ciò che ci richiama a compiere uno sforzo di onestà intellettuale, di coraggio civile e di pulizia concettuale. 

Sostegno e armi

Da un’ampia rilevazione statistica (circa cinquemila interviste) condotta a inizio estate 2022 dal Laboratorio di politiche sociali dell’Università di Siena per l’Aspen Institute Italia emergeva come gli italiani fossero in stragrande maggioranza solidali con gli ucraini, ritenessero che la responsabilità della guerra fosse dell’invasore russo e che gli ucraini avessero il diritto di difendersi.

Allo stesso tempo, la maggioranza degli stessi intervistati era convinta che l’Italia non dovesse consegnare armi all’Ucraina: una maggioranza che diventa minoranza se a spedire quelle armi fosse la Ue e minoranza ancora più piccola se a farlo fosse la Nato.

Ovvero se a farlo fossero due istituzioni delle quali l’Italia è paese membro fondatore e che notoriamente non agiscono in conto proprio ma attraverso le decisioni e le azioni degli stati membri. Insomma, mandate pure le armi, basta che sul pacco il nome del mittente non sia il mio.

Forse dovremmo ricordare di più e meglio da dove veniamo tutti noi esseri umani: da una specie di scimmie scesa dagli alberi centinaia di migliaia di anni fa, per chissà quale motivo, che con lentezza e sempre a rischio di estinzione è riuscita a colonizzare un intero pianeta, a trasformarlo – anche a rovinarlo, purtroppo – e a trasformare se stessa.

Siamo diventati uomini e donne per la capacità di misurarci con la morte, e quindi sotto la spinta a dare un senso alla nostra vita: riempiendola di sentimenti, di relazioni, di ideali.

Oggi ci aspettano sfide immani: la più importante è senza dubbio continuare a fare sì che la terra sia un posto non ostile alla sopravvivenza della specie umana. Per fare questo, la guerra non ci servirà, ci sarà di ostacolo.

Ma la mancanza della libertà che deriverebbe dalla sconfitta delle democrazie e dal trionfo degli autoritarismi ci impedirebbe persino di poter provare a individuare le soluzioni da mettere in campo.

L’articolo è un estratto del libro Il posto della guerra e il costo della libertà, (Bompiani, pagg.215, euro 16,15) di Vittorio Emanuele Parsi

© Riproduzione riservata