Nel marzo 1985, la politica americana sembrava aver preso una direzione ben precisa. I repubblicani, guidati dal presidente Ronald Reagan, erano rinvigoriti da un quadriennio di crescita economica e da una percezione di ritrovato prestigio dell’America nel mondo. 

Avevano la loro ragion d’essere in un roccioso anticomunismo che si concretizzava in una lotta senza quartiere contro l’Unione Sovietica, gigante gerontocratico e immobile sul piano della politica interna, con un’economia stagnante (nel quinquennio 1980-85 la crescita sarebbe stata dell’1,8 per cento su base annua secondo le analisi della Cia o dello 0,6 per cento secondo le stime successive dell’economista russo Grigory Khanin) ma molto aggressiva in politica estera.

In quegli anni, lo spionaggio sovietico, guidato dal capo del Kgb Viktor Chebrikov, aveva raggiunto l’apice della sua efficienza, smantellando la rete di agenti americani sotto copertura a Mosca e portando a segno molte operazioni sul suolo americano, compreso il reclutamento di un alto ufficiale dell’Fbi come Robert Hanssen che avrebbe continuato a passare informazioni a Mosca anche dopo la caduta del comunismo.

Dall’altro lato i democratici erano divisi tra una sterile fazione liberal concentrata nelle aree urbane e a nord est, ripudiata dalla maggioranza degli elettori, e una forte ala conservatrice al sud, che spesso appoggiava le politiche del presidente, fornendogli i voti che mancavano alla Camera dei rappresentanti.

La svolta e la crisi

Con l’arrivo di Mikhail Gorbaciov ai vertici dell’Unione Sovietica tutto stava per cambiare: Ronald Reagan, lo stesso uomo che nel 1983 aveva definito l’Urss «impero del male» e «uno stato che vìola deliberatamente i diritti umani e il valore della vita» ha trovato che il nuovo segretario del Pcus era una persona con cui «si potevano fare affari».

Una serie di accordi sono culminati con il trattato Inf, firmato alla Casa Bianca l’8 dicembre 1987. Bandiva i missili nucleari a medio e lungo raggio posseduti dalle due potenze e metteva in atto un sistema di controlli incrociati per il loro smaltimento.

Paradossalmente però, questa svolta che avrebbe portato il successore di Reagan, George Bush, a supervisionare la caduta del Muro di Berlino e il dissolvimento dell’Unione Sovietica, ha portato a una forte crisi identitaria del partito repubblicano. Senza il comunismo, per cosa avrebbe combattuto?

Cambiamenti

Agli elettori delle presidenziali 1992 i repubblicani erano apparsi come il partito che aveva aiutato il ceto più ricco coi tagli delle tasse e aveva reso l’America un paese più disuguale. Negli anni successivi, grazie alla creazione di Fox News, il primo canale all news esplicitamente conservatore, l’attenzione era passata dal nemico esterno, non più chiaramente identificabile, verso quello interno: i progressisti, le femministe, il crescente movimento per i diritti Lgbt, la “corruzione” della presidenza di Bill Clinton.

Bill Clinton era la rappresentazione del cambiamento provocata dai dem, sia pur indirettamente, dall’epoca di Gorbaciov. Un governatore moderato dell’Arkansas, stato del sud che finalmente aveva saputo unire le due ali del partito democratico sotto un’unica linea.

Si potrebbe sintetizzare così: i repubblicani avevano ragione sull’efficienza del libero mercato e su un contrasto duro al crimine e alle droghe. Ciò detto, servivano dei correttivi per tentare di fermare le disuguaglianze e per dare più possibilità di crescita individuale anche per chi proveniva da famiglie svantaggiate. Lo stesso Clinton, durante lo stato dell’Unione del 23 gennaio 1996, aveva dichiarato che l’epoca del “big government”, dello stato pesante, era finita.

Non è stato proprio così, ma in quel momento nessuno osava mettere in discussione la riduzione del perimetro del governo federale operata da Ronald Reagan che, in un certo qual modo, aveva dimostrato come un’alternativa forte avesse mandato in crisi il sistema sovietico.

Il ricordo

Cosa resta oggi nella memoria pubblica americana dell’epoca di Mikhail Gorbaciov? Rimane un leader russo amichevole e rispettabile, forse l’unico con queste caratteristiche, data che l’immagine di un altro “distensore” dei rapporti bilaterali come Nikita Krusciov è stata macchiata dalla crisi cubana dei missili del 1962 e Boris Eltsin, primo presidente della Russia post-sovietica, pur avendo intenzione di attuare riforme radicali, si è trovato a essere l’incarnazione della corruzione e dell’instabilità politica.

Gorbaciov, quindi, ha rappresentato un unicum nell’immaginario collettivo: il capo del principale avversario della potenza americana che voleva seriamente riformare il proprio sistema e che voleva superare il sistema dei due blocchi passando gradualmente alla democrazia e all’economia di mercato.

Quest’immagine non corrisponde integralmente al vero, dato che lo stesso Gorbaciov non ha esitato a tentare di reprimere le spinte indipendentiste in Lituania nel 1989 e in Azerbaigian nel 1990 usando i carri armati così come avevano fatto i suoi predecessori.

Nell’epoca in cui la Russia odierna è sotto il dominio di Vladimir Putin e la sua reputazione è crollata in virtù dell’aggressione all’Ucraina, anche crimini come questi appaiono peccati veniali rispetto all’immagine bonaria di Gorbaciov, rafforzata negli anni Novanta dai suoi tour internazionali (ricordiamo anche la visita in Italia nel 1995), che agli occhi a volte non troppo attenti dell’opinione pubblica americana rappresentava una possibilità di un mondo disteso e senza nemici, dove la liberaldemocrazia rappresentava un sostrato unificante per le maggiori nazioni del mondo.

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