In un paese che incensa la figura dell’esperto di geopolitica (maschile) mentre le diverse prospettive di analisi delle relazioni internazionali stentano ad animare un dibattito pubblico in cui il cittadino possa identificare chiare linee di distinzione, è senza dubbio da salutare con favore ogni passo che aiuti l’emergere di una foreign policy community aperta e partecipata. Al termine di un percorso di consultazione che ha coinvolto un gruppo qualificato di studiosi e specialisti, nei giorni scorsi è stato pubblicato dal Partito democratico il Documento finale del comitato di esperti sulla politica estera: una trentina di pagine di riflessione su «valori e interessi per una nuova politica estera del Pd» che abbraccia «tutti gli ambiti di azione politica interna ed estera» e ambisce a portare avanti un «pensiero rinnovato».

A tal fine il documento sviluppa cinque linee guida fondamentali: sovranità europea condivisa, autonomia strategica aperta, multilateralismo pragmatico e inclusivo, democrazia basata sui diritti e globalizzazione sostenibile.  

La parità di genere è senza dubbio da sempre un importante punto di riferimento programmatico per l’azione politica del Partito democratico. Tuttavia, si può dire che qualcosa perde quando lo sguardo si rivolge verso la politica internazionale. L’intero documento non cita infatti mai la parola genere, limitandosi a menzionare en passant il ruolo di «gruppi di donne e giovani come elementi essenziali di cambiamento».

Il protagonismo delle attiviste

Soprassediamo sul fatto che dal documento non si evinca una coerente “teoria del cambiamento”, ambizione teorica che buona parte della sinistra ha da tempo messo in sospeso, e la cui formulazione non è demandabile a un gruppo di esperti. Il punto è schiettamente politico: poco più di un anno fa l’Alleanza progressista dei socialisti e dei democratici al parlamento europeo (il gruppo S&D nel quale il Pd è il terzo partito per rappresentanza dopo Psoe spagnolo e Spd tedesca) ha pubblicato un position paper su parità di genere e diritti delle donne che sottolinea l’importanza di dotarsi di una politica estera femminista. Nel documento S&D si raccomandano azioni miranti ad aumentare la partecipazione delle donne in tutti i consessi internazionali (in linea con la ormai più che ventennale “Agenda donne, pace e sicurezza” delle Nazioni unite) avendo come fine l’empowerment femminile.

Dalla brutale repressione talebana in Afghanistan al coinvolgimento delle organizzazioni femminili nel processo di pace colombiano, passando per le mobilitazioni delle donne iraniane e di quelle sudanesi, è piuttosto difficile non vedere oggi la rilevanza della questione: il protagonismo delle attiviste che si battono per parità di genere, diritti politici e sociali, per quanto con modalità carsiche di manifestazione, sopravvive alla fine delle Primavere arabe, rappresentando oggi un po’ ovunque una sfida che resiste alla repressione dei regimi autoritari, e dà prova di aprire spazi di trasformazione sociale e politica. Le proteste iraniane mostrano una inversione del discorso: trainate da parole d’ordine femministe, esse contengono una pressante domanda di ampliare lo spazio dei diritti politici, sociali ed economici.  

La domanda non può che essere diretta, e forse meno retorica di quanto potrebbe sembrare a prima vista: può il principale partito democratico e progressista italiano permettersi di non includere nemmeno nel proprio orizzonte di dibattito programmatico un accenno a una politica estera femminista? 

La questione migratoria

Prendiamo la questione migratoria. Le circostanze odierne sono note: ci troviamo in presenza di un accordo separato fra alcuni governi mediterranei (Italia, Grecia, Cipro, Malta) per deflettere la responsabilità degli sbarchi di richiedenti asilo e migranti verso altri paesi Ue, molti dei quali sono alle prese con ingenti numeri di arrivi dall’Ucraina (1 milione in Germania, 160mila in Italia). All’accordo, promosso dal presidente (presidente-donna) del Consiglio Giorgia Meloni, si è sottratto il governo spagnolo a guida socialista.

La Spagna ha adottato nel 2021 un’esplicita politica estera femminista, un “approccio trasformativo” che investe l’intero apparato del ministero degli Esteri della priorità della «promozione attiva dell’uguaglianza di genere», costruendo alleanze trasversali, affrontando i temi dell’intersezionalità, della violenza di genere, dell’appoggio alle attiviste, della partecipazione femminile nelle sedi decisionali, nei processi di pace così come in relazione al cambiamento climatico. Particolarmente in tempi di femo-nazionalismo, la questione migratoria è tutt’altro che neutra dal punto di vista del genere.

Sarebbe utile aprire il dibattito su questo punto, cercando di sviluppare una politica migratoria femminista, che tenga conto delle esigenze delle donne e delle ragazze migranti, dei diritti fondamentali delle richiedenti asilo. Questo ci suggerisce l’esperienza di chi opera in prima linea su questo fronte.

Il documento adotta invece il controverso framing della crisi migratoria, affiancandola alle crisi economico-finanziaria, pandemica e ucraina. Anche volendo prescindere dalla dimensione di genere ci si potrebbe aspettare, in un’agenda “rinnovata e progressista”, un esplicito impegno, parlando di politica estera e di sicurezza comune, rispetto a come rivedere e riformare gli accordi di Dublino, dopo il passo indietro rappresentato dal Nuovo patto sulla migrazione e asilo. 

Associated Press/LaPresse Only Italy

Passi indietro ed evoluzioni

Se ci allontaniamo dalla dimensione mediterranea e seguiamo l’enfasi del documento sulle «consolidate alleanze con i principali partner europei per fare passi avanti anche verso forme di integrazione differenziata» (ovvero verso l’auspicato superamento della regola del consenso unanime da parte di un nucleo di stati-membri Ue), ci troviamo anche in Francia e in Germania con l’esplicita adozione, in anni recenti, di una politica estera femminista, con tanto di indicatori e roadmaps. Certo, è sempre possibile un’involuzione, come mostra il caso svedese.

La Svezia è stato il primo paese al mondo, nel 2014, a dotarsi di una politica estera femminista: il 19 ottobre, ovvero appena insediatosi, il nuovo ministro degli Esteri del governo di destra, Tobias Billström, ha annunciato la fine dell’impegno femminista svedese nelle relazioni internazionali, affermando che «l’etichetta femminista non è servita a nulla, oscurando il fatto che la politica estera si deve basare su interessi e valori svedesi». Ma, per l’appunto, quale indicazione più chiara si può trarre da questa mossa, se non il fatto che persista un’importante, netta distinzione ideologica circa dove oggi corre la differenza fra destra e sinistra?

Il documento Pd sorprende, considerato l’impegno di molti firmatari e firmatarie su questi temi, incluso quello della promozione della partecipazione delle donne negli ambiti della sicurezza internazionale. Il problema può forse essere spostato a monte, ovvero verso la lettura del rapporto fra un partito e l’expertise scientifica a cui presta ascolto, tramontata la figura dell’intellettuale organico. Come interpretare, oggi, tale rapporto, e le lacune che il documento in questione mostra?

Di certo c’è che, al netto del silenzio sulla dimensione di genere in politica estera, e a fronte dell’enfasi che il documento riserva alla riforma delle istituzioni internazionali (Ue, Onu e, più in generale, la governance della globalizzazione) colpiscono altre significative omissioni. La guerra in Ucraina è menzionata una dozzina di volte, mentre la parola pace appare una sola volta, evocata come ideale europeista.

Il documento non menziona i movimenti sociali e politici se non, a titolo esemplificativo, i Fridays for future. Non trova spazio la nozione di disarmo. Sud globale e dimensione (post-)coloniale faticano ad assumere alcun rilievo analitico o strategico, se non in termini di impegno verso una maggiore rappresentanza in sede Onu dei paesi africani. La nettezza con la quale il governo Meloni, e in particolare il ministro degli Esteri, pone oggi una priorità di policy sull’Africa richiede certamente un maggior ingaggio da parte di chi siede all’opposizione.

Il documento si conclude dichiarando il proprio intento di stimolare una riflessione pubblica e partecipata a diversi livelli, dai circoli Pd a ulteriori riunioni con i membri del medesimo Comitato di esperti e altri soggetti che animano la galassia socialdemocratica e progressista. Questa indicazione sembra di buon auspicio, lasciando ampio margine per opportune correzioni del tiro, adattamenti e approfondimenti.

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