Dicono i sondaggi che gli italiani contrari all’invio di armi agli ucraini siano più numerosi dei favorevoli, un dato che non ha equivalenti in alcun paese europeo.

Questa statistica doveva essere ben presente ai deputati e senatori, un terzo del totale, che hanno disertare l’aula quando Zelensky si è rivolto in video-conferenza al nostro parlamento.

Tra gli assenti alcuni erano giustificati, ma tanti probabilmente hanno inteso segnalare – innanzitutto al proprio elettorato - una critica al presidente dell’Ucraina e alla resistenza all’invasione russa.

Questi sentimenti in genere sono taciuti, forse in attesa che l’andamento della guerra ne confermi la preveggenza. Ma chi si azzarda a motivarli di solito argomenta in due modi.

L’argomentazione umanitaria: Zelensky è un irresponsabile, sta protraendo l’agonia del suo popolo e mette tutti noi a rischio di essere inghiottiti dal gorgo di una guerra nucleare; dovrebbe prendere atto che i russi di fatto hanno già vinto, o comunque vinceranno, e piegarsi al diktat di Mosca.

L’argomentazione geopolitica: la situazione è molto più complessa di quanto racconti chi ci vorrebbe schiacciare sull’alleanza Nato-Ucraina, di cui Zelensky è un campione.

Arrendersi a Mosca

Va detto che altre obiezioni al generico “armare gli ucraini” sono più acute (per esempio Andrea Capussela sulla rivista del Mulino). Ma di gran lunga prevalgono le tesi umanitarie e geopolitiche. Talvolta fatte proprie anche da persone stimabili. E proprio questo le rende significative. Non si tratta di chiacchiere da bar: semmai pensieri e posture ben radicati nella storia della nostra democrazia.

L’argomentazione umanitaria presuppone che i russi di fatto abbiano vinto: ma non vi è un solo sito di studi militari che confermi questa tesi. Sembrerebbe, anzi, che l’esercito ucraino stia dimostrando di poter resistere per un tempo assai maggiore del tempo concesso a Putin dallo stato dell’economia russa e dal costo di una guerra prolungata.

Di conseguenza l’obiezione all’invio di armi avrebbe senso solo se invertissimo la prospettiva: quanto più l’esercito ucraino resiste e infligge colpi al nemico, tanto più a Mosca crescerà la tentazione di allargare il conflitto, minacciare la Nato, sfoderare il nucleare tattico. Corollario inevitabile: nessun aiuto ai resistenti ucraini. Ci stanno mettendo in pericolo. Che si arrendano, si dichiarino russi fino a ieri inconsapevoli, arrestino Zelensky, si sottomettano a Mosca; e finalmente noi saremo al sicuro.

Come una scusa

Un ragionamento di tale crudezza non sorprenderebbe in bocca ad uno di quei conservatori di scuola realista per i quali è lecito mettersi sotto i tacchi la libertà altrui, se questa è la nostra convenienza. Ma non può essere reso esplicito in un paese dove il discorso pubblico resta vincolato a standard morali.

In Italia l’ex segretario del maggior partito ossequia feroci satrapi arabi senza diventare un pariah, e un avanzo di prescrizioni può aspirare al Quirinale: nondimeno certe cose non si possono dire. Sicché un riflesso di autoconservazione forse egoistico ma certo comprensibile dev’essere mascherato nel suo opposto: in una scelta etica. E perché il travestimento sia credibile la realtà va adeguata di conseguenza. Non potendo chiedere agli ucraini di farsi sudditi dello zar per togliere tutti noi dall’imbarazzo, ci si racconta che Putin sta vincendo la guerra, solo la resa salverà dal massacro gli ucraini. E noi appunto vogliamo salvarli.

Il precedente

Il ribaltamento perbenista presuppone la disponibilità dell’opinione pubblica all’auto-inganno, se utile a celare l’indicibile. Una conferma di questa disponibilità la offre lo strabiliante interdetto che a trent’anni di distanza tuttora ci impedisce di fare i conti con le nostre responsabilità nella guerra di Bosnia.

Come ormai può apprendere chiunque voglia informarsi, l’aggressione di Serbia e Croazia alla Bosnia fu intenzionalmente agevolata da un embargo Onu sulle armi che di fatto colpiva solo gli aggrediti. Gli europei, in particolare Francia e Gran Bretagna, non volevano nel continente cristiano uno stato con una maggioranza relativa musulmana (sarebbe “innaturale”, dissero a Clinton). Si puntò sulla resa degli aggrediti: la Bosnia sarebbe sparita, fagocitata da Serbia e Croazia. L’alternativa comportava rischi militari e politici: nessuno voleva mandare “i nostri ragazzi” a salvare musulmani.

Ma nulla di tutto questo poteva essere ammesso. Dunque si virò, complici i media, su una narrazione che attribuiva la guerra ad un risalire di “odi atavici” dalle profondità della storia. Lo sterminio pareva una specie di evento naturale, come un terremoto; aggrediti e aggressori risultavano ugualmente colpevoli.

Con rare eccezioni (i verdi tedeschi, i lib-dem britannici, Wojtyla, la Bonino, il Guardian di Londra) l’Europa si mentì con tenacia, l’Italia in particolare. Per la Stampa di Torino, il giornale del ministro degli Esteri Susanna Agnelli, l’esercito bosniaco attaccato dalle milizie croate era “gli hezbollah” (ma gli editoriali di Alain Finkielkraut su Le Monde non furono meno indecenti).

Senza empatia

Ve ne sarebbe abbastanza perché in Italia partiti, giornali e movimenti pacifisti, all’epoca allineati alla narrazione degli ‘odi atavici’, oggi ammettano la loro parte di responsabilità nel massacro di centomila umani, per gran parte ammazzati dai nazionalismi serbo e croato. Invece non solo non si trova alcuna traccia di autocritiche, ma sui quotidiani ci si può imbattere in condanne dell’intervento Nato, che con una settimana di bombardamenti pose fine allo sterminio.

Qui sopravviene l’argomentazione geopolitica: estroflettendosi oltre i propri confini senza mandato Onu, l’Alleanza atlantica varò sul campo quell’inteventismo umanitario in seguito pretesto per la guerra neocoloniale in Libia. Vero. Ma questo non toglie che senza quella forzatura avremmo continuato ad assistere con flemma al massacro che si svolgeva sotto i nostri balconi.

Non tenendo alcun conto di questo risultato, l’argomentazione geopolitica lascia sospettare una singolare incapacità di empatia con le vittime: ieri i bosniaci, oggi gli ucraini. Le sofferenze degli uni e degli altri diventano una nota a piè di pagina del grande libro della storia, un dettaglio su cui si soffermano solo i poveri di spirito. Invece i saggi non si lasciano annebbiare dalle emozioni di fronte allo spettacolo della ferocia, e forse quelle emozioni neppure le provano, protetti come sono dalla visione generale. Dalla percezione della complessità.

Semplificazioni                                                                                                                

Senonché quando si va a indagare quella elitaria, tormentosa, controintuitiva complessità, in genere si trova solo uno spaventoso labirinto. Là dentro anche la più elementare verità finisce triturata, o perlomeno controbilanciata da una verità opposta che vuole svuotarla. Certo, l’invasione dell’Ucraina è ignobile: ma non sarebbe avvenuta senza le provocazioni della Nato, che ora prosegue la sua politica aggressiva armando gli ucraini.

Certo, il massacro di Srebrenica fu orribile: ma la Nato non doveva intervenire, con i bombardieri irruppe nei Balcani l’imperialismo Usa. Il problema di questa complessità è che non è complessa. Semplifica troppo le situazioni che mette sbrigativamente in relazione, ne equivoca sia la sostanza sia la magnitudine, sicché alla fine uno sterminio di innocenti risulta poca cosa rispetto alle ipotetiche colpe di chi agli sterminatori si oppone (per qualche misteriosa ragione nel labirinto della complessità le colpe di solito sono americane).

Con maggior rispetto della complessità si potrebbe concludere: certo, è inaccettabile che oggi i media mainstream pretendano di zittire chi non si allinea; ma questo non esclude che il pensiero divergente spesso sia sgangherato e ipocrita.

L’ipocrisia svelata

L’ipocrisia è svelata soprattutto dallo scansare sempre la domanda: se ci affidassimo unicamente alla diplomazia, cosa accadrebbe concretamente? Cosa sarebbe accaduto in Bosnia, cosa accadrebbe in Ucraina? È molto italiano questo sottrarsi al dovere di indicare una soluzione alternativa, un bene inevitabilmente tortuoso, forse sporco di sangue.

La storia pone dilemmi che raramente si prestano a risposte lineari, pulite: e in questo sta il fondamento del tragico. Rifiutandone i dilemmi, l’irenismo italiano rifiuta la storia. E finisce per camuffarla con una narrazione che non ci angosci, ne smussi le scabrosità, la renda accettabile: e se necessario nasconda la nostra colpa. Questo atteggiamento pare iscritto nella nostra democrazia fin dalla sua origine.

Finita la guerra gli italiani si esentarono, e furono esentati, dal fare completamente i conti con quel che erano stati in grandissima maggioranza: fascisti. Perfino generali responsabili di massacri in Libia, in Jugoslavia, in Grecia ebbero meno fastidi di quelli che subì in seguito lo storico Angelo Del Boca quando ne raccontò i misfatti ad un paese che non voleva ascoltare (e le foibe?, obietterebbe a questo punto la Meloni: se avessimo punito gli assassini di jugoslavi forse avremmo avuto qualche possibilità di ottenere la punizione degli infoibatori).

L’occasione

Ma in cambio dell’oblio la democrazia italiana dovette accettare la tutela angloamericana e le deleghe che la tutela comportava. Da qui il radicarsi di una mentalità da sudditi visibile nella percezione della politica estera: un oscillare inconcludente tra il risentimento e l’ossequio, tra il rancore e la consueta delega di responsabilità.

Sicché oggi chi vuol e tener lontano lo zio Sam sviene se gli si prospettano gli oneri che l’emancipazione comporta. Da qui, infine, la prassi di un ceto politico che sui temi sensibili, quali appunto la guerra ucraina, spesso pratica la mesta tecnica del posizionamento. Quale postura assumere nel futuro prossimo, quando tanti italiani cominceranno a vociare contro questi ucraini che ci costringono a pagare il prezzo della loro ostinazione? Presto conosceremo la risposta.

Il mondo è cambiato, è finita la turbolenta pax americana, siamo inseriti nel nucleo della Ue che rivendica autonomia strategica, abbiamo l’occasione di diventare un’Europa forte e matura. Per una volta, cerchiamo di fare i conti con la storia.

© Riproduzione riservata