Lo scorso giugno, Emmanuel Macron ha provocato una semi-crisi diplomatica con l’Ucraina, nonché l’ira delle cancellerie baltiche e l’«incomprensione» americana e britannica, per aver raccomandato di non umiliare la Russia: con una tale dichiarazione, aveva replicato aspro il ministro degli Esteri ucraino Dmytro Kouleba, la Francia umilia se stessa.

Se si restasse alla lettera di quello scontro verbale e diplomatico, si dovrebbe dire che sia Macron che Kuleba stavano sbagliando bersaglio: già a giugno, infatti, era chiaro che chi si stava umiliando era la Russia, esibendo agli occhi della propria popolazione e del mondo intero i suoi insuccessi e le sue fragilità.

La dichiarazione di Macron, però, non andava presa alla lettera; era una figura di stile – una litote – per evitare di dire apertamente quello che il presidente francese aveva in mente, e cioè: bisogna salvare il soldato Russia. Se Macron avesse espresso esplicitamente il suo pensiero, l’incidente diplomatico con Kiev e le capitali baltiche sarebbe stato molto più grave; ma le giostre verbali tra le cancellerie sono una parte fondamentale del gioco delle parti quando la politica internazionale si mette in scena pubblicamente.

I dirigenti ucraini e baltici, servendosi delle stesse armi retoriche, stavano in realtà trasmettendo il loro messaggio, opposto a quello di Macron: bisogna umiliare la Russia. Credere alla sincerità della loro indignazione sarebbe far loro un torto; sarebbe imputarli di non conoscere la Francia, e soprattutto di non conoscere la storia delle relazioni tra la Francia e la Russia.

Alti e bassi

Prima dell’alleanza del 1894, quelle relazioni avevano conosciuto alti (pochi) e bassi (molti, e soprattutto profondi). I rapporti diplomatici risalgono al 1702, su iniziativa di Pietro il Grande, quasi cento anni dopo un primo infruttuoso approccio russo (1615) alla corte di Luigi XIII.

Agli inizi del Settecento, la Francia era la più importante potenza europea, e quindi, agli occhi dello zar, un efficace contrappeso al pericoloso avvicinamento tra Svezia e Inghilterra. Ma il complesso e mutevole gioco multipolare europeo – tra Francia, Gran Bretagna, Svezia, Polonia-Lituania, Prussia, Austria e Impero ottomano – non era propizio alla formazione di alleanze stabili e durature: lungo il Diciottesimo e il Diciannovesimo secolo, la Francia e la Russia si sono trovate talvolta sullo stesso fronte (nella Guerra dei sette anni, per esempio), e più spesso su fronti contrapposti (nelle guerre napoleoniche e nella guerra di Crimea, per citare i due casi più famosi).

A questo proposito: tutti ricordano l’invasione del 1812, l’incendio di Mosca e la disastrosa ritirata, che costarono a Napoleone la perdita di nove decimi delle sue truppe, la perdita di Parigi (invasa dai russi) e, infine, del trono; pochi, però, ricordano che, nel 1801, lo stesso Napoleone aveva proposto allo zar Paolo I un attacco congiunto franco-russo all’India, dando involontariamente inizio a quello che diventerà, lungo tutto il secolo, il great game, l’avanzata russa in Asia centrale nella speranza, appunto, di conquistare l’India britannica e arrivare alle calde acque dell’oceano Indiano.

Il punto di svolta delle relazioni franco-russe è stata l’unificazione tedesca del 1871. L’abile strategia diplomatica di Bismarck aveva permesso di mantenere la Russia dalla parte della Germania attraverso la Lega dei tre imperatori (1873), associando l’Austria e isolando la Francia; ma la rivalità tra Vienna e San Pietroburgo nei Balcani, e il timore russo per la sempre più minacciosa potenza tedesca – confermato poi dalla firma della Duplice alleanza tra Berlino e Vienna nel 1879 – hanno spinto la Russia nelle braccia della Francia. E viceversa: dopo la débâcle del 1870-1871, Parigi aveva disperatamente cercato alleati contro la minaccia tedesca, diventata ormai esistenziale nonostante le rassicurazioni di Bismarck; ripetutamente respinta da Londra, e dopo l’uscita di scena del “cancelliere di ferro”, la Francia si è gettata, a sua volta, nelle braccia della Russia.

L’alleanza del 1894

L’alleanza ufficiale è stata firmata nel 1894, con l’impegno reciproco di entrare in guerra nel caso in cui la Germania avesse attaccato uno dei due paesi, costringendo così Berlino a combattere su due fronti. Se quell’impegno ha rappresentato una delle pedine del domino che hanno portato allo scoppio della Prima guerra mondiale, la disposizione geostrategica della «tenaglia» è stata la trappola in cui è caduta la Germania in entrambi i grandi conflitti del Ventesimo secolo.

La Russia, però, era già allora un gigante militare dai piedi di argilla. Una natura particolarmente ostile, un territorio immenso attraversato da pochi fiumi non navigabili e distanti tra loro, un difficile accesso ai mari ghiacciati una parte dell’anno e un’economia ancora zavorrata da residui feudali: tutti fattori che rendevano ostico l’accumulo di capitali necessario per avviare una moderna industrializzazione. Dopo l’accordo del 1894, per ragioni strategiche ed economiche al tempo stesso, è stata la Francia a fornire massicci investimenti, al punto che, scrive l’economista Olga Crisp, «gli investimenti francesi e l’economia russa in generale avanzarono in parallelo» (Studies in the russian economy before 1914, New York, 1976).

Dal 1917 alla Guerra fredda

Nonostante il “tradimento” della rivoluzione del 1917, e la decisione del governo bolscevico di annullare unilateralmente tutti i debiti (provocando la rottura dei rapporti diplomatici con la Francia), l’inizio del riarmo della Germania nel 1935 è stato all’origine del riavvicinamento tra Parigi e Mosca. E al momento dell’attacco tedesco del 1941, de Gaulle ha assicurato il sostegno – esclusivamente simbolico, ovviamente – della “Francia libera” all’Urss, firmando nel 1944 con Stalin un trattato di alleanza e di mutua assistenza: l’intento era di far leva sulla Russia per cercare di controbilanciare, al tavolo delle trattative, l’esorbitante peso degli anglo-americani.

Il tentativo è poi fallito, e de Gaulle non fu neppure invitato a Yalta qualche mese dopo; ma quel trattato confermava la vecchia consuetudine dei due paesi di servirsi l’uno dell’altro come contrappeso a rivali più forti.

Nel corso del dopoguerra, e malgrado l’opposta collocazione nei due campi della Guerra fredda, la Francia non ha mai esitato a servirsi della Russia per accrescere il proprio peso relativo in un contesto in cui gli alleati formali – Stati Uniti, Gran Bretagna e Germania – suscitavano a Parigi più irritazione, rancore e inquietudine che simpatia. Non era questione di simpatia nemmeno nei confronti di Mosca, naturalmente; ma la Russia era più lontana, più debole, e aveva il grande merito di tenere divisa la Germania, in un’epoca in cui quasi tutti i francesi pensavano in silenzio quello che lo scrittore François Mauriac aveva detto ad alta voce: «Amo talmente la Germania da essere contento che ce ne siano due».

Sospetti franco-tedeschi

(AP Photo/Christophe Ena)

I recenti screzi tra Macron e Olaf Scholz hanno ricordato a tutti che il rapporto tra Francia e Germania dopo la guerra – ma anche dopo il Mercato comune, il Trattato dell’Eliseo e l’Unione europea – è stato perennemente viziato da un reciproco sospetto, se non qualcosa di più, nonostante i sorrisi e gli abbracci. Così, mentre la Germania cercava rassicurazioni a Washington, la Francia le cercava a Mosca; e quando la Germania si avvicinava alla Russia, la Francia riscopriva un insospettato tropismo atlantico: il tutto, in un contesto in cui l’associazione tra Parigi e Bonn serviva, magari in combutta proprio con Mosca, a pesare su Washington (come nel caso della guerra del 2003, senza grande successo, però).

L’aggressione all’Ucraina, sottraendo a francesi e tedeschi la sponda russa, ha rotto gli ingranaggi di quella collaudata macchina di equilibri reciproci. Non è importante sapere se nei calcoli di Mosca ci fosse il progetto di ridare freschezza e vigore all’egemonia degli Stati Uniti in Europa, ma il risultato è quello: per cui si può dire che gli americani sono i grandi vincitori di questa guerra mentre i francesi e i tedeschi sono i grandi perdenti (assieme alla Russia, è vero, ma la Russia se l’è cercata).

Anche dopo il conflitto in Georgia del 2008 e perfino dopo l’invasione del 2014 e l’annessione della Crimea, Parigi e Berlino si erano mosse rapidamente per ricucire lo strappo, animate magari da motivazioni e obiettivi diversi, ma coincidenti sulla necessità di mantenere attivo il rapporto con Mosca. Gli accordi di Minsk, si sa, hanno scontentato tutti, ma hanno permesso di continuare come prima, quasi come se nulla fosse successo.

Molti ricorderanno la visita di Macron a Mosca del 7 febbraio di quest’anno (soprattutto il surreale chilometrico tavolo bianco tra lui e Putin), e magari anche quella di Scholz una settimana dopo, nell’ovvio tentativo di convincere il loro omologo russo a frenare la macchina di guerra. Quel doppio smacco ha umiliato e isolato Parigi e Berlino e ha fatto capire che Mosca aveva individuato in Washington la sua sola controparte: i margini per una presa di distanza delle due capitali europee dal resto del cosiddetto “fronte occidentale”, o addirittura un’opposizione, come nel 2003, erano saltati.

È vero che Francia e Germania, malgrado l’inevitabile condanna dell’invasione, hanno comunque mantenuto canali aperti con la Russia, sostenendo la necessità di lasciarle delle vie d’uscita, di «non umiliarla», appunto; ed è anche vero che sono state parche nell’inviare aiuti all’Ucraina: secondo il Kiel Institute for the world economy, in termini di aiuti totali la Germania è il terzo paese in assoluto, ma solo il sedicesimo in proporzione al Pil, mentre la Francia è settima in assoluto – quasi due terzi meno della Polonia – e ventunesima rispetto al suo Pil; in termini di armamenti, la Francia ha promesso meno aiuti dell’Australia e anche meno di Estonia e Lettonia (dati al 3 ottobre).

Questo cauto distinguo dal fronte dei falchi antirussi potrebbe permettere a Parigi e Berlino di rientrare in gioco in caso di trattative di pace; ma, anche in questo caso, la cosa sarebbe possibile solo se gli Stati Uniti li autorizzassero, o addirittura li spingessero a farlo, cioè senza recuperare quei margini di “autonomia strategica” rispetto a Washington che le due capitali europee si erano bene o male ritagliate in questi ultimi anni.

Sconfitti e vincitori

La diplomazia energetica, che era stata l’architrave della Ostpolitik tedesca fin dagli anni Settanta (e, di converso, un fastidioso sasso nella scarpa americana), è praticamente morta, e questo è forse il più grande successo degli Stati Uniti e il grattacapo maggiore per Berlino, non solo per ragioni politiche ma anche per ragioni immediatamente economiche.

Per Parigi, la sconfitta è duplice, sul fronte atlantico e sul fronte europeo; su quest’ultimo, allo spostamento del baricentro verso il Baltico (e quindi verso i paesi più legati agli Stati Uniti), si accompagna un nuovo squilibrio nella complicata relazione con la Germania. Alcuni osservatori interessati hanno fatto notare che uno spostamento del baricentro verso l’est danneggia più la Francia che la Germania, la prima rischiando di essere risucchiata verso il Mediterraneo, e la seconda vedendo invece una rivalutazione della sua tradizionale sfera di influenza. In questa chiave si potrebbe leggere la recente picca antitedesca della Polonia che però, ricordiamolo, si muove in stretta sintonia con gli Stati Uniti, in un legame in cui, evidentemente, è partner di minoranza.

Sullo sfondo si staglia la Cina, che potrebbe essere la vera posta in gioco di tutta la partita, quali che fossero i piani russi prima del 24 febbraio. Per gli americani, tradizionalmente, la Russia ha un’importanza relativa, utile soprattutto come cuneo per dividere gli europei (come durante la Guerra fredda); e in questo senso, conviene ripeterlo, Putin e i suoi sono riusciti a fare per gli Stati Uniti di più e meglio di quanto siano riuscite a fare le successive amministrazioni americane negli ultimi trent’anni (con l’eccezione, forse, della guerra del 2003).

La Cina, invece, è il competitore strategico, contro il quale Washington sta dispiegando tutte le sue armi: politiche, ideologiche, diplomatiche, militari ed economiche, fino a fare del progetto di decoupling – la riduzione della dipendenza dai prodotti e dalle catene di approvvigionamento cinesi – una linea strategica non solo interna, ma anche internazionale, spingendo verso quella direzione i cosiddetti amici e alleati. Ma i cosiddetti amici e alleati hanno interessi diversi: non solo la Cina è ormai diventata il primo partner commerciale dell’Unione europea; non solo gli investimenti europei in Cina continuano ad aumentare, ma la Germania da sola ne rappresenta il 43 per cento del totale degli ultimi quattro anni, e la Francia circa il 10 per cento.

Ragioni economiche e politiche avrebbero quindi dovuto “naturalmente” spingere Berlino e Parigi a rivendicare l’“autonomia strategica” anche nell’Indo-Pacifico; ma non potendola più rivendicare in Europa, pensare di farlo in Asia è ormai diventata una chimera. Tantopiù se Berlino e Parigi si azzuffano fra di loro per decidere, fuori tempo massimo, chi rappresenti l’Europa, in un frangente storico in cui, in tutta evidenza, l’Europa la sta rappresentando Washington. Per cercare di uscirne con le ossa intere, Macron può anche fare gli occhi dolci a Biden ma, per sperare di convincere il presidente americano, avrebbe piuttosto bisogno di una Russia intera e non umiliata per riprendere quel gioco di sponda su cui Parigi si è allenata negli ultimi centotrent’anni.

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