L’Italia riscopre l’Africa grazie alle sue risorse energetiche, ma ciò accade in un momento in cui il continente sta affrontando una profonda crisi alimentare anche a causa della guerra ucraina. Dal Fondo monetario internazionale (Fmi) alla Banca mondiale (Bm) al World food programme (Wfp) il messaggio è lo stesso: la guerra in Ucraina in Africa vuol dire fame. Non solo in nord Africa, ma anche nel Corno d’Africa e nel Sahel, la regione che negli ultimi dieci anni è stata nel mirino della politica estera europea per via della questione migratoria e della minaccia jihadista.  

Impennata dei prezzi

Considerati come i granai del mondo, la Russia e l’Ucraina producono il 25 per cento delle esportazioni di cereali a livello globale. Secondo la Fao, circa cinquanta paesi dipendono al 30 per cento dall’importazione del loro grano e trentasei (di cui dodici africani) ne dipendono per oltre il 50 per cento. Nel giro di qualche settimana dopo l’invasione russa dell’Ucraina, i prezzi di molti prodotti alimentari hanno subìto un aumento notevole a causa delle (previste) carenze di approvvigionamento. 

Nel mese di marzo, l’indice dei prezzi alimentari della Fao, un indice che monitora le variazioni dei prezzi di un paniere di prodotti alimentari comunemente scambiati, ha registrato un incremento del 12,6 per cento rispetto a febbraio, mese in cui tale indice aveva già raggiunto il livello più alto mai registrato da quando è stato creato nel 1990. In particolare, il prezzo dei cereali è aumentato del 17 per cento, quello dell’olio di girasoli (di cui l’Ucraina è il più grosso esportatore al mondo) è aumentato del 23 per cento, cosa che, insieme all’aumento del prezzo del petrolio, ha anche gonfiato i prezzi degli oli di palma e di soia. Stesso discorso vale per la carne: l’impennata dei prezzi della carne suina, dovuta alla carenza di animali da macello in Europa occidentale, ha fatto salire l’indice Fao dei prezzi della carne del 4,8 per cento raggiungendo il massimo storico.

Previsioni tragiche

Le conseguenze di tutto ciò in Africa saranno devastanti. Lo si vede già adesso in Somalia (dove circa 1,4 milioni di bambini sotto i cinque anni soffre di malnutrizione acuta), e nei paesi dell’Africa occidentale e del Sahel dove l’insicurezza, l’instabilità politica, la siccità, le conseguenze della pandemia e l’incapacità dei governi di rispondere alle sfide economiche anche a causa dei debiti pubblici, mettono a dura prova la popolazione di un’intera regione.

Secondo il Wfp e l’Ifad, a giugno il numero di persone che soffrirà la fame nel Sahel e nell’Africa occidentale raggiungerà un nuovo record, quadruplicando in soli tre anni da 10,7 milioni nel 2019 a 41 milioni nel 2022. Perché sebbene l’aumento dei prezzi degli alimenti di base è stato costante in tutti i paesi della regione, il 2022 ha registrato un vertiginoso salto del 40 per cento rispetto alla media degli ultimi cinque anni in Liberia, Sierra Leone, Nigeria, Burkina Faso, Togo, Niger, Mali e Mauritania. Le previsioni per i prossimi mesi sono quindi tragiche: a causa della crisi ucraina, il numero di persone che dovranno affrontare un’insicurezza alimentare acuta aumenterà tra i 7 e i 10 milioni e i paesi che potrebbero essere più colpiti sono la Mauritania, il Mali, il Burkina Faso, il Niger e il Ciad.

Violenza jihadista

Nel Sahel, la crisi ucraina non è altro che un fattore aggiuntivo a una situazione già profondamente complessa. I fattori che contribuiscono alla fame sono diversi: diminuzione della produzione agricola, inflazione economica, persistenza di barriere doganali e, soprattutto, insicurezza.

Nonostante la proliferazione di operazioni militari internazionali, è da circa dieci anni che il Sahel è progressivamente diventata una sorta di polveriera dove la violenza jihadista e intercomunitaria non sembra diminuire: attentati, attacchi e rapimenti rappresentano una realtà quotidiana per milioni di civili. Nel mese di marzo, secondo l’International crisis group, la situazione è ancora peggiorata. In Burkina Faso, dopo un periodo di relativa calma, le violenze jihadiste sono aumentate nel nord del paese.

Nel nord est del Mali ci sono stati scontri mortali tra jihadisti e gruppi firmatari dell’accordo di pace del 2015 che hanno ucciso centinaia di persone. E in Niger, gruppi jihadisti hanno intensificato gli attacchi nelle regioni Tillabery e Diffa. Il perdurare delle violenze, aggravate dall’estrema povertà, dal degrado ambientale, dalla pressione demografica e dai rischi epidemici rendono la situazione umanitaria catastrofica. In Mali, secondo Care, sono 400mila gli sfollati, ovvero quattro volte di più rispetto al 2020. Mentre in Burkina Faso, dal 2019 gli sfollati sono aumentati del +2000 per cento portando il numero a 1,7 milioni.

Colpi di stato

Tutto ciò si inserisce in un contesto in cui nell’ultimo anno e mezzo vi sono stati quattro colpi di stato: in Mali e in Burkina Faso i militari hanno preso il potere con la forza. Lo scorso marzo, il Niger ha sventato un colpo di stato poco prima dell’investitura del neo presidente Mohamed Bazoum e lo scorso aprile, subito dopo l’annuncio della morte del presidente Idris Déby, il figlio Mahamat ha assunto le redini del potere attraverso un consiglio militare di transizione.

Oltre a confermare l’esistenza di un trend che si è manifestato nel 2021 in altri paesi africani, questi colpi di stato hanno svelato la difficoltà crescente di agire delle organizzazioni regionali come l’Ecowas e l’Unione africana a causa della progressiva perdita di legittimità per via dell’inefficacia e incoerenza mostrata in questi ultimi anni nel prevenire le crisi. Inoltre, come denunciato da Guterres, in Africa «i colpi di stato militari sono tornati in un clima in cui vi è una mancanza di unità nelle risposte della comunità internazionale. Le divisioni geopolitiche stanno minando la cooperazione internazionale e un senso di impunità sta prendendo piede».

Il caso del Mali insegna: dopo essere stato sanzionato per via del colpo di stato, il governo ha siglato un accordo militare con la società privata russa Wagner – considerata come l’esercito ombra del Cremlino. In risposta la Francia ha dichiarato che tale mossa fosse incompatibile con la sua presenza militare nel territorio. Minaccia che non ha assolutamente portato il governo maliano a cambiare idea sul chiedere sostegno ai russi, anzi. Dopo ulteriori minacce, il 31 gennaio Bamako ha espulso l’ambasciatore francese dal paese e Parigi ha avviato il suo progressivo ritiro militare.  

La strategia europea

In tutto ciò, cosa fa l’Europa? Impegnata nella regione dal 2011, l’anno scorso tramite il Consiglio europeo ha approvato una nuova strategia per il Sahel allontanandosi da un approccio prevalentemente “securitario” in vista di una maggiore attenzione alla governance dei singoli stati, ai diritti umani, alla democrazia, alla lotta contro la corruzione, ma anche al rispetto del contratto sociale tra governi e cittadini.

È difficile però pensare come oggi questa strategia (che si concentra anche sulla lotta al terrorismo, migrazione e assistenza umanitaria) possa essere concretamente implementata, poiché la stessa si fonda su una sorta di reciprocità e fiducia con i governi locali che non solo sono spesso frutto di colpi di stato, ma hanno anche rapporti stretti con la Russia. Cosa che, come abbiamo visto con il Mali, ma anche in Centrafrica, ha inasprito i rapporti non soltanto tra governi e Francia ma anche con la stessa Ue.

Inoltre, la crescente influenza russa nel continente africano non sembra aver subìto contraccolpi con l’invasione ucraina: in sede Onu, durante il voto sulla risoluzione di condanna dell’invasione russa, su 54 paesi africani 24 si sono astenuti o non si sono espressi. Tra questi non soltanto quelli prevedibili come il Sud Africa, l’Angola, il Mali o il Centrafrica, ma anche il Senegal, che fino a poco tempo fa sembrava uno degli ultimi bastioni sotto influenza francese.

Tuttavia, di fronte all’allarme fame lanciato da diverse organizzazioni internazionali, l’Ue ha annunciato che rafforzerà il suo impegno politico e finanziario nei confronti dell’Africa destinando, nel 2022, 554 milioni di euro alla sicurezza alimentare del Sahel e del Lago Ciad. Buone notizie quindi? Non proprio.

Al di là degli annunci a livello europeo, alcuni donatori hanno già dichiarato che dirotteranno i loro fondi dall’Africa all’Ucraina. Come spiega Oxfam, il 24 marzo la Danimarca ha annunciato di aver riassegnato 2 miliardi di corone dall’aiuto allo sviluppo all’accoglienza dei rifugiati ucraini in Danimarca, includendo tagli di 290 milioni di corone nei programmi nel Sahel.

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