Sacrifici umani. A questo si è giunti con la guerra di Gaza. Ismail Haniyeh, leader di Hamas, parla ai suoi da Doha: «Abbiamo bisogno del vostro sangue, anche quello dei bambini… per risvegliare lo spirito rivoluzionario…» Chissà se si rende conto che chi accetta i sacrifici umani segue una tradizione pagana.

Come il cristianesimo e l’ebraismo anche l’islam afferma di discendere da Abramo, padre di tutti i credenti e khalil Allah, amico di Dio. Abramo parlava con Dio e si permetteva addirittura di negoziare la salvezza della città.

Ma quando provò a sacrificare suo figlio, Dio lo fermò. Fine dei sacrifici umani, in voga nel mondo pagano. Eppure Haniyeh li ordina ancora al suo popolo. L’odio e la sofferenza sedimentati da decenni costituiscono una miscela micidiale su cui prospera la «grande cultura del martirio», come la chiama Francesca Mannocchi su la Stampa.

È un martirio diverso da chi accetta la propria morte al posto di altri o per proteggerli. Al contrario si tratta di un sacrifico umano: cercare di trascinare con sé il più alto numero possibile di nemici (i kamikaze) o di trapiantare e trasmettere un odio infinito.

È l’antitesi dell’amore: un falso martirio che pretende il sacrificio dei piccoli e dei deboli per un’idea assassina. Ogni despotismo ha i suoi “martiri” siffatti.

Così Hamas si nasconde dietro il sangue dei bambini, i propri dopo aver ucciso quelli del nemico. Sappiamo che non tutti i palestinesi la pensano così, probabilmente nemmeno tutti i capi di Hamas stessa, divisa in più correnti.

Rappresaglia

Reagire con altrettanto odio può parere giustificato ma rischia di rafforzare una contorta ideologia del male: a questo portano i bombardamenti indiscriminati sulla popolazione civile di Gaza. Rappresentano la furia impotente di un paese ferito: una rappresaglia che nutre la cultura del martirio dei nemici, esaltandola.

Gli Usa stanno usando un’inedita severità contro le bombe israeliane e gli attacchi dei coloni. Non tutti la pensano allo stesso modo in Israele o tra i palestinesi. Come testimoniano a Francesca Borri su Repubblica online (chissà perché non riportato su carta...), a Nablus tira un’aria singolare: «Non è vero che qui nessuno ha più nulla da perdere – le dicono –  ridursi in macerie non aiuta».

Anche tra gli israeliani non tutti sono d’accordo con la distruzione totale di Gaza: sanno già che rafforzerà l’odio. Anche se Hamas sarà distrutta (cosa a cui molti israeliani non credono più), si teme che dopo verrà qualcosa di peggio. L’alleanza tra ultraortodossi (che non mandano i figli a combattere per motivi religiosi) ed estrema destra laica e suprematista sta scricchiolando: si fa a gara su chi scaricare la responsabilità del fallimento securitario.

Lo stesso Netanyahu si è dovuto rimangiare assurde accuse: ha le ore contate ma non basterà la sua condanna a calmare gli animi. Le famiglie dei rapiti sono una forza riconosciuta: i delegati del hostage and missing families forum sono stati ricevuti dal presidente della repubblica Isac Herzog e spingono per il negoziato.

Alcuni esperti sostengono che sia tutt’ora in corso malgrado l’escalation, anzi: più si avvicina la soluzione più le parti alzano il prezzo. Il problema è che molti ostaggi sono nelle mani di “cani sciolti”, terroristi improvvisati al seguito dei militanti di Hamas il 7 ottobre.

Abbiamo visto immagini di ragazzini in motorino che portavano via rapiti in maniera improvvisata. Cosa se ne fa Hamas di neonati o bambini piccolissimi? Qualcuno arriva a sostenere che di alcuni si sono perse le tracce: un caos creato dall’imprevisto successo dell’attacco aggravato ora dai bombardamenti. Ma quasi nessuno in Cisgiordania vuole fare la fine di Gaza.

Opportunità per trattare

Uno sguardo approfondito sulle società israeliana e palestinese porta a capire che la polarizzazione di cui si ammantano gli estremisti delle due parti non è totale. Hamas ha sperato che l’incursione avrebbe rialzato le sue credenziali ma l’opinione si sta capovolgendo: ora tutti vedono che è senza prospettive.

La situazione è molto più complessa di come appare, offrendo opportunità alla trattiva futura. Nel mondo palestinese non ci si riconosce nemmeno nella jihad islamica che mescola settarismo sciita e sunnita in un ibrido indigesto per i musulmani.

Ancor peggiore è il giudizio sulle altre fazioni che cambiano nome in continuazione. Da sempre i palestinesi si dividono in correnti e Israele ne ha approfittato, acuendo le loro divisioni, ma ora tale politica mostra i suoi limiti. Tutti si chiedono come l’Anp possa ritrovare credibilità: le opinioni su Abu Mazen sono negative ma quelle sull’Olp rimangono discordanti.

Marwan Bargouthi, ora in carcere, resta pur sempre un leader di al Fatah. Sia nella West Bank che nella stessa Gaza i sostenitori veri e propri di Hamas e dei più radicali sono minoritari, come mostra un sondaggio di Arab Barometer uscito su Foreign Affairs.

Ciò che è generalizzata è la simpatia per la “resistenza” all’occupante ma sono davvero in pochi ad accettare i sacrifici umani richiesti da Haniyeh.

Anche nell’universo degli insediamenti ci sono molte sfumature: paradossalmente i kibbuz del sud che sono stati attaccati erano “di sinistra” e con molti pacifisti. All’opposto i coloni in Cisgiordania, imbevuti di ideologia razzista e suprematista, non hanno atteso il 7 ottobre per sparare sui palestinesi.

Su di loro gli americani si sono fatti durissimi: da anni quasi ogni giorno viene ucciso un palestinese, addirittura un minore, senza motivo. Èevidente che una cosa del genere non potrà durare all’infinito e che il rancore che cova dovrà essere bonificato, come auspicano gli israeliani laici e democratici.

Calate le passioni e posata –si spera presto – la polvere delle bombe, si tratterà di riprendere un filo interrotto anni fa. A quel punto una sola soluzione resterà in piedi, in mezzo alle macerie: quella dei due stati. Ci vorrà tutta l’energia del mondo per realizzarla.

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