Il conflitto nella Striscia di Gaza, iniziato con gli attacchi di Hamas del 7 ottobre, dura da più di un mese. Mentre gli ospedali sono al limite dell’operatività e cibo e acqua scarseggiano, un cessate il fuoco internazionale non è ancora stato dichiarato. Di ritorno in Italia dopo quasi un mese bloccata tra Gaza City, Khan Yunis e Rafah, la volontaria italiana Giuditta Brattini racconta a Domani la situazione umanitaria nella Striscia. «Sarà una carneficina», dice Giuditta Brattini. Cooperante della onlus italiana Gazzella (che si occupa dell’adozione a distanza, della cura e della riabilitazione di bambini palestinesi feriti da armi da guerra), Brattini si è recata a Gaza il 17 settembre per incontrare i bambini del progetto di adozione e verificare le attività di due cliniche dentali che l’associazione ha in parte finanziato. Dopo gli attacchi di Hamas del 7 ottobre, la volontaria è rimasta bloccata nel territorio fino al 1° novembre, quando è riuscita a passare dal valico di Rafah, al confine con l’Egitto, e ad uscire. Preoccupata per il futuro dei palestinesi, Brattini racconta a Domani cosa ha visto a Gaza.

Il dramma degli ospedali

«Di Gaza mi ha colpita la situazione degli ospedali», dice la volontaria di Gazzella. La sanità, già insufficiente, è peggiorata drasticamente dopo l’invasione della Striscia. Oggi si combatte proprio attorno agli ospedali, sotto ai quali Israele -- ma anche l’Unione europea -- sostiene che Hamas abbia alcune delle sue basi. «Ho visto persone a cui sono stati amputati arti perché mancavano i medicinali di base o gli strumenti che avrebbero permesso di salvare loro la gamba o il braccio. I dottori fanno come possono», dice Brattini, che ha una formazione di primo soccorso e che, grazie al suo lavoro da volontaria, collabora da anni con i medici palestinesi.

Giuditta Brattini, volontaria Gazzella Onlus nella Striscia di Gaza

«È stato anche riutilizzato il fosforo bianco», aggiunge, riferendosi al fatto che l’esercito israeliano abbia più volte utilizzato la sostanza per creare cortine fumogene, come nell’operazione “Piombo fuso” del 2008-2009. Nonostante Israele abbia dichiarato nel 2013 che non si sarebbe più servito del fosforo bianco come arma, Amnesty International e Human Rights Watch ne hanno confermato il recente utilizzo sui civili. Le ferite da fosforo sono riconoscibili: la sostanza brucia fino alle ossa e continua se non viene fermata dall’ossigeno. «Le lesioni sono quasi impossibili da guarire, e sui bambini crea gravi danni, riparabili solo con la chirurgia estetica», spiega la volontaria, che ha già visto le ferite da fosforo nel 2008-2009 a Gaza. Da quando ha lasciato Rafah, Brattini è in collegamento continuo con i medici della Palestinian Medical Relief Society (partner di Gazzella) e con gli ospedali pubblici. «Le notizie sono preoccupanti», dice riferendosi al bombardamento di venerdì davanti all’ospedale al Shifa (il più grande della Striscia di Gaza), dove si erano rifugiate diverse famiglie.

Anche nelle sue testimonianze da Gaza, la volontaria menziona spesso i bombardamenti sugli ospedali. «Ritengo che per bombardare un ospedale ci debba essere la sicurezza di quello che si afferma», dice la cooperante di Gazzella. «Israele chiede di liberare gli ospedali, che oggi ospitano non solo malati ma anche sfollati. Siamo davanti alla catastrofe». Israele intima infatti da settimane di liberare il territorio da nord fino a Gaza City: questo include anche gli ospedali, che però si trovano spesso nell’impossibilità di spostare i malati e feriti altrove. «La Croce rossa internazionale (presente nella Striscia di Gaza) non sta dando indicazioni a riguardo», aggiunge Brattini, «né su una possibile evacuazione degli ospedali, né in quali termini».

Beni di prima necessità

La Striscia di Gaza è un territorio che da anni vive basandosi sugli aiuti umanitari. In una situazione di “normalità”, nel territorio entrano 500 camion al giorno. Oggi ne entrano solo 100, «un numero insufficiente per far fronte al bisogno della popolazione», dice Brattini, che da anni si reca regolarmente nel territorio. I camion vengono fermati al valico e cautamente perquisiti prima di essere ammessi nella Striscia di Gaza. «I beni inoltre si fermano a Bureij, a metà della Striscia», aggiunge la cooperante di Gazzella, spiegando che Israele non permette che si rifornisca il nord del territorio. Dopo il 7 ottobre, la volontaria ha subito la scarsità di cibo e acqua e la critica situazione degli sfollati palestinesi. Prima di rientrare in Italia, ha passato tre notti a Kahn Yunis, città tra Gaza City e Rafah, in una struttura dell’Unrwa (Agenzia delle Nazioni unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi) con 35.000 sfollati. «Qui abbiamo dormito in stanze enormi con materassi per terra. Chi era fortunato aveva una coperta», dice Brattini. Si è poi spostata a Rafah, dove è rimasta per due settimane in un campo dell’Unrwa.

«Vivevamo in un’evidente condizione di disagio», spiega. «C’era chi dormiva nelle macchine dei medici nel campo, chi fuori con qualche coperta. Eravamo in una quarantina con un solo bagno». Il cibo scarseggiava per tutti, il gruppo di internazionali di cui la volontaria faceva parte mangiava quasi sempre scatolame. «L’acqua è stata il vero problema», aggiunge, «di acqua potabile ne avevamo fatto una buona scorta, ma quella per lavarsi era insufficiente. Ne avevamo contingentato l’uso e facevamo a turni». Di ritorno dalla Striscia di Gaza, Giuditta Brattini sottolinea più volte la necessità di una tregua umanitaria, per fermare il «massacro di una popolazione» che, dice, alludendo alle parole del ministro della Difesa israeliano, «viene trattata al pari degli animali». «Un cessate il fuoco è necessario subito o sarà una carneficina», conclude la volontaria.
 

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