Il 1° luglio Hong Kong ha celebrato i suoi primi venticinque anni sotto sovranità cinese: dopo un secolo e mezzo come colonia britannica, il 1° luglio del 1997 il territorio tornò a essere governato da Pechino, e l’allora leader cinese, Deng Xiaoping, coniò una serie di slogan che dovevano garantirne i diritti e l’autonomia per le decadi a venire. Hong Kong doveva essere governata grazie alla formula di “un paese, due sistemi”, e alla promessa di un alto grado di autonomia – nonché della garanzia di vivere per cinquant’anni senza cambiamenti.

Invece nulla ha potuto durare così a lungo: la pomposa cerimonia del 1997 aveva infatti unito sotto la stessa bandiera due entità profondamente diverse, sia dal punto di vista sociale e culturale che politico. E fin dal primo giorno, entrambe sapevano di avere un peso specifico ben differente, per la loro dimensione, certo (7,5 milioni di abitanti a Hong kong, e 1,4 miliardi di abitanti nella Cina continentale), ma non solo: Hong Kong, abituata alla libertà di stampa e a quella di assembramento, sviluppatasi sì in una colonia, ma dotata di libertà religiosa e della possibilità di affinare il proprio pensiero critico nei suoi istituti educativi dal curriculum liberale, si trovava fin dall’inizio sotto, e non affianco, a un potere cinese che, pur chiamando Hong Kong una regione ad amministrazione speciale, con il passare degli anni e il rafforzarsi della sua economia, ha scelto di diventare ogni giorno meno aperta e meno pluralista – e meno disposta a tollerare la diversità di Hong Kong.

Se nel 1997 molti leader cinesi erano pronti ad ammettere che la Cina aveva bisogno di riforme anche politiche, che avvicinassero il colosso asiatico a un sistema maggiormente democratico (pur aggiungendo nella stessa frase che per far questo era necessario più tempo, dato che il paese non era ancora “pronto” per la democrazia), oggi, i potenti cinesi vantano quella che secondo loro è la superiorità del loro sistema politico e si affannano a decretare il tramonto irrimediabile dei paesi democratici, e a criticare a voce alta, affinché la popolazione cinese senta, tutte le falle di un sistema in cui la popolazione ha voce in capitolo, e può eleggere i suoi rappresentanti e indagare sul loro operato tramite una stampa libera.

Versioni storiche

La rotta di collisione fra Hong Kong e la Cina era evidente già da alcuni anni – ma quando la repressione è davvero arrivata, prima sotto forma di pesante contenimento dell’ordine pubblico da parte delle forze dell’ordine, scaraventatesi contro i dimostranti del 2019 con accesa violenza, poi con il passaggio della legge sulla sicurezza nazionale, il 30 giugno 2020, è meglio non credere a chi dice di non esserne stato sorpreso: nessuno a Hong Kong si aspettava metodi così duri e drastici, convinti come erano tutti che le barriere esistenti fra la Cina continentale e Hong Kong fossero utili anche a Pechino, e dunque, che il potere sovrano avesse interesse a proteggerle.

La storia degli ultimi venticinque anni, naturalmente, nasce molto prima: da parte di Pechino, è figlia di un peccato originale, quello delle Guerre dell’oppio (la prima, dal 1839 al 1842; la seconda dal 1856 al 1860) che l’impero dei Qing (1636-1911), distratti su altri fronti, persero contro l’avanzata imperialistica britannica, cedendo l’isola di Hong Kong, con la prima, e la penisola di Kowloon, con la seconda.

Man mano che il nazionalismo cinese si fa più forte, le rinnovate versioni della storia passata che lo accompagnano si fanno anche più furibonde contro i torti subiti in un passato che alla Cina non serve che passi, e l’onta di quello che i bambini cinesi a scuola imparano a chiamare il Secolo di umiliazione (ovvero, grosso modo, il periodo dalla Prima guerra dell’oppio fino alla fondazione della Repubblica popolare cinese, nel 1949) viene anzi ingrandita di anno in anno, per mantenere vivi lo sdegno e l’affronto malgrado il passare del tempo.

Da parte di una grossa percentuale degli hongkonghesi, invece, la storia di Hong Kong nasce dopo, quando, a ondate, loro stessi si sono riversati a Hong Kong preferendo l’ombrello coloniale della pax britannica alle continue guerre e campagne politiche devastanti che hanno attraversato la Cina nel periodo in cui Hong Kong era invece una colonia.

Quando gli inglesi ottennero Hong Kong, infatti, l’isola e i territori conquistati successivamente erano scarsamente popolati, e i sette milioni e mezzo di persone che si trovano oggi a Hong Kong sono per la maggior parte figli, o nipoti, di chi ha scelto di lasciare la Cina e costruirsi una vita scappando qui. E dalle sponde di Hong Kong guardavano inquieti quello che succedeva ai loro fratelli e sorelle più a nord: quando la carestia prodotta dal grande balzo in avanti voluto da Mao negli anni Cinquanta portò a milioni di morti. O quando la rivoluzione culturale appena dieci anni dopo scatenò il caos portando di nuovo a milioni di vite perdute e arresti su arresti, per tenere dietro a ideologie in costante cambiamento.

Tirarono un respiro di sollievo collettivo quando l’epoca maoista si concluse ed ebbero inizio le riforme economiche volute da quello stesso Deng Xiaoping che supervisionò i termini del loro “ritorno alla madrepatria”, ma anche questa breve serenità si tramutò in pianto quando a Pechino risuonarono gli spari che misero fine alle manifestazioni del 1989. Dunque, nemmeno di Deng ci si poteva fidare, pensarono tantissimi a Hong Kong, e un milione di persone marciò per protestare contro le uccisioni a Pechino, malgrado un tifone stesse attraversando la città.

Da allora in poi Hong Kong prese su di sé il manto della memoria, ricordando ogni anno i morti di Tienanmen con una veglia a lume di candela al parco Vittoria (dove ancora oggi si trova una statua in bronzo del 1896 della regina britannica, seduta sul suo trono imperiale, che fu scolpita dall’italiano Mario Raggi) a cui partecipavano decine di migliaia di persone – sia che l’estate monsonica di Hong Kong portasse tifoni, di nuovo, o caldo umido e soffocante.

C’era anche un museo, privato, gestito da volontari, e un gruppo che si era dato il goffo nome di Alleanza per il sostegno dei movimenti democratici patriottici in Cina, in modo da mostrare al Partito comunista che non era l’unico detentore dell’amore della patria.

Ma da quest’anno, per la prima volta dal 1989, la commemorazione è stata formalmente proibita: mentre il resto del mondo ha deciso di convivere con il Covid, infatti, la Cina e Hong Kong perseguono un tentativo di eliminare il virus tramite un sistema restrittivo capillare, che proibisce gli assembramenti di più di quattro persone alla volta e che obbliga all’uso di mascherine quasi ovunque, insieme a numerose quarantene e isolamenti forzati ogni qualvolta le cifre dei casi ricominciano a salire.

La legge sulla sicurezza

Le autorità non hanno specificato chiaramente se fosse per questo motivo soltanto che la manifestazione annuale è stata proibita: in passato, dichiarazioni sporadiche degli esponenti dell’amministrazione di Hong Kong (interamente selezionata e approvata da Pechino) hanno messo in dubbio che ricordare Tienanmen potesse essere considerato legale dopo il 2020, ovvero, dopo che Pechino ha introdotto la sua arma più potente contro l’irrequietezza politica di Hong Kong, ovvero, la legge sulla sicurezza nazionale. Ponendo così fine, in piena pandemia, alle proteste che avevano scosso la città nel 2019.

(AP Photo/Kin Cheung, File)

Con questo articolo di legge, scritto a Pechino e approvato a Pechino senza passare per i canali usuali dell’approvazione dei rappresentanti al mini-parlamento di Hong Kong (anche chiamato Consiglio legislativo, o LegCo), e anche entrato in vigore prima ancora che il suo testo fosse stato reso pubblico ai governanti o alla cittadinanza di Hong Kong, l’intero sistema giudiziario locale è stato profondamente modificato.

La legge sulla sicurezza nazionale, infatti, ha introdotto con un solo colpo di riforma giudiziaria tutti quei princìpi e concetti a lungo estranei al sistema giudiziario di Hong Kong, peraltro ancora sotto al sistema prevedibile e dettagliato della Common Law britannica, decidendo che crimini quali la secessione, la sovversione, il terrorismo e la collusione con forze esterne sono da giudicarsi da tribunali speciali, che possono essere anche in Cina. Ogni discorso o parola pubblica, ogni slogan o scritta che mostrino l’incitazione o l’intenzione di promuovere questi concetti sono atti considerati altrettanto criminali.

Pechino ha voluto estendere a Hong Kong il suo esasperato concetto di “sovranità” – una sovranità talmente pervasiva da dichiararsi padrona anche delle azioni e delle parole e, quando può, dei pensieri e dei cuori dei suoi cittadini: una sovranità che non solo ribadisce il suo possedere territori e di avere un legittimo governo su di questi, ma che vuole possedere anche spazi non fisici, dal cyberspazio alle intenzioni dei suoi abitanti, dichiarando anche l’extraterritorialità della legge sulla sicurezza nazionale (per quanto, per ora almeno, nessun paese abbia accettato questa idea così astratta dei limiti della giurisdizione cinese).

Poco prima della proibizione della veglia commemorativa del 4 giugno, però, il museo che celebrava i fatti del 1989 è stato fatto chiudere e sono stati sequestrati i pannelli esplicativi, le fotografie, e altri cimeli di trentatré anni fa. L’Alleanza stessa è stata fatta sciogliere, e molti dei suoi massimi rappresentanti si trovano in prigione in attesa di giudizio, accusati di assembramento illegale e incitazione all’assembramento illegale per aver tenuto la commemorazione in tempi pandemici (e a nulla vale che questa si fosse tenuta all’aperto, e che i partecipanti avessero mantenuto le distanze di sicurezza, e indossato le mascherine).

Le trasformazioni

Per capire che cosa succede oggi a Hong Kong bisogna infatti sia guardare al presente che al passato, dato che i semi della sfiducia reciproca furono gettati in anni passati. Ma è opportuno anche cercare di avvicinarsi il più possibile a una società conosciuta, internazionalmente, più per la sua finanza e per i suoi scintillanti grattacieli sede delle maggiori banche del mondo che non per le sue leggende e per le sue decadi di lenta lotta, che hanno visto la città passare, in poco più di vent’anni, dall’essere un luogo di rifugiati che vivevano in baraccopoli pericolose e prone a devastanti incendi, a un posto che ha fatto dell’efficienza una religione e della rapidità una regola, arrivando a costruire una delle società civili più radicate di tutta l’Asia. Fin quando, per l’appunto, l’impazienza di Pechino non ha deciso che tutto ciò dovesse essere ridimensionato, e messo sotto il controllo attento delle autorità.

Quello che sta succedendo oggi a Hong Kong è in parte emblematico: da quando è stata implementata la legge sulla sicurezza nazionale, più di 200mila persone hanno deciso di lasciare la ex-colonia, in particolar modo famiglie con bambini in età scolare che non vogliono che i propri figli seguano lo stesso tipo di curriculum patriottico imposto nella Cina continentale. Chi resta cerca di occupare gli spazi disponibili: ovvero, di “essere come l’acqua”, secondo uno degli slogan dei manifestanti del 2019 che si erano appropriati di una frase di Bruce Lee, l’eroe cinematografico di arti marziali, per significare la capacità di modificare in fretta i propri comportamenti, e adattarsi alle circostanze esterne – così come fa l’acqua, che, secondo Lee, può scorrere o schiantarsi, e adotta la forma del recipiente in cui è contenuta.

La città non è più in rivolta, e ha perso la speranza di poter cambiare le cose dall’interno, dal momento che la riforma elettorale del 2021, che prevede che «solo i patrioti siano al governo di Hong Kong» ha reso impossibile all’opposizione la speranza di contribuire alla democratizzazione della società, dal momento che di democratizzazione il governo centrale non vuol sentire parlare.

Il nuovo fronte oggi è sull’informazione: a Hong Kong Internet resta per il momento libero, contrariamente a quanto avviene in Cina, ma già dallo scorso anno diverse testate sono state fatte chiudere (fra cui quella storica e molto influente di Apple Daily, il cui fondatore, Jimmy Lai, è attualmente in prigione in attesa di diversi processi – fra cui almeno uno per infrazioni alla legge sulla sicurezza nazionale).

La radio RTHK, modellata sulla BBC in tempi coloniali, è stata trasformata licenziando giornalisti, sopprimendo programmi e cambiando i vertici, ed è oggi molto più simile a un portavoce del governo che non a una radio pubblica dalla linea editoriale indipendente.  

A tutti i livelli scolastici e in tutte le istituzioni educative i curriculum sono stati cambiati, e perfino la decennale fiera del libro indipendente, che ha luogo in luglio in parallelo a quella ufficiale, quest’anno non ha ricevuto il permesso.

Il 25esimo anniversario, a cui ha presenziato Xi Jinping, ha dimostrato anche che un certo tipo di estetica propagandistica corrente in Cina continentale e totalmente aliena a Hong Kong non è più assolutamente un tabù: Hong Kong è stata inzuppata in un barattolo di inchiostro rosso, e ne era riemersa in un tripudio di bandiere nazionali e manifesti e ghirlande dello stesso colore che inneggiavano alla gloriosa epoca che si apre per Hong Kong, ora che la città si accinge a entrare nel suo secondo lustro sotto la sovranità di Pechino.

Eclissi o tramonto?

Così come avviene già in Cina, neanche a Hong Kong l’opinione popolare ha spazi politici in cui può essere espressa senza il timore di ritorsioni – ma questo non significa dare ragione a chi, senza quasi riflettere, continua a decretare “la morte” di Hong Kong: le metropoli non spariscono così, e malgrado gli arresti e gli esili, malgrado le chiusure forzate e i cambiamenti imposti per portare il territorio maggiormente in linea con il resto della Cina, non tutti si danno per vinti. Ci sono nuove librerie che aprono, nuove gallerie d’arte che si spingono ai limiti del possibile, e nuove testate online che si concentrano su argomenti più di nicchia – i processi giudiziari, l’arte, di nuovo, un campo che lascia per ora maggiore respiro, o, più in generale, cultura e società.

Non è mai una buona idea cercare di predire il futuro, ma una cosa appare chiara: affinché Hong Kong possa tornare ad avere sogni ampi, bisognerà aspettare che anche la Cina si stanchi del mondo sempre più angusto in cui, da una decina di anni a questa parte, ha deciso di vivere. Le restrizioni sanitarie istituite durante la pandemia di Covid non sono ancora sufficientemente rilassate da far sì che i viaggi da e per Hong Kong possano tornare alla normalità, fra quarantene, test e tamponi obbligatori, e l’aeroporto di Chek Lap Kok è passato dall’essere l’hub regionale per eccellenza a un’enorme infrastruttura semi vuota dalla quale passano appena una manciata di voli al giorno.

La pandemia si è sdraiata su Hong Kong soffocandone le richieste politiche dopo il 2019, l’anno del tumulto popolare maggiore, mai visto dalla fine degli anni Sessanta. La classe dirigente oggi è cambiata. Scaduto il mandato di Carrie Lam, che esce con l’indice di approvazione più basso nella storia dei capi dell’esecutivo della Hong Kong post-coloniale, è ora al timone John Lee Ka-chiu, già numero due nella gerarchia politica di Hong Kong e, in precedenza, capo della sicurezza.

Ka-Chiu è un uomo formatosi interamente in polizia, precedentemente incaricato di gestire le manifestazioni del 2019: il suo polso fermo, le sue maniere dure nei confronti dei manifestanti gli sono valse l’approvazione di Pechino, che lo ha dunque incaricato a capo dell’esecutivo (tramite delle “elezioni” con poche centinaia di votanti, nelle quali Ka-Chiu era l’unico candidato).

Non c’è dunque da aspettarsi nulla di nuovo da parte del governo, ma ancora maggiori paletti legislativi per impedire che possano verificarsi ancora proteste di massa pro-democrazia e anti-governo. Se si tratterà di un’eclissi (qualcosa di temporaneo, dopotutto, come è anche nel titolo del mio libro su questa città, L’eclissi di Hong Kong) o invece di un tramonto, si potrà vedere solo un po’ alla volta.

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