L’accusa è quella di cospirazione alla sovversione, secondo quanto previsto dalla legge sulla sicurezza nazionale approvata da Pechino a giugno dello scorso anno. La legge criminalizza qualunque forma di protesta. I sostenitori degli attivisti si sono radunati fuori dal palazzo della giustizia
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La polizia di Hong Kong ha portato in tribunale altri 47 attivisti pro-democrazia con l'accusa di cospirazione a commettere sovversione nei confronti dell’ordine nazionale, ai sensi della legge sulla sicurezza nazionale imposta alla città da Pechino lo scorso anno.
I sostenitori degli attivisti si sono riuniti fuori dal tribunale, cantando slogan a favore delle proteste.
LA LEGGE SULLA SICUREZZA
L’Assemblea nazionale del popolo di Pechino ha approvato la legge sulla sicurezza nazionale nei confronti di Hong Kong il 30 giugno 2020. La norma punisce gli atti di sovversione, secessione, terrorismo e collusione con le forze straniere compiuti nell'ex colonia britannica. Da allora i procedimenti rappresentano la più grande accusa di massa contro l'opposizione del territorio cinese semiautonomo. Uno dei motivi per cui la legge è stata approvata all’unanimità dalla Cina è stato la necessità di frenare l’ondata di violenza a Hong Kong.
La causa delle frequenti violenze tra Pechino e Hong Kong deriva dal fatto che la Cina si era impegnata a garantire libertà politiche, giuridiche ed economiche, sancite anche dalla Basic Law, fino al 2047.
LA CONDANNA INTERNAZIONALE
La legge è stata condannata a livello internazionale, dagli Stati Uniti all’Unione europea. L’ex segretario di Stato americano dell’amministrazione Trump, Mike Pompeo, aveva bloccato il rilascio del visto statunitense a esponenti del Partito comunista cinese che avessero violato le libertà fondamentali dell’individuo. Mentre l’Ue si era raccomandata con gli Stati membri di sanzionare i funzionari cinesi che «adottano politiche che violano i diritti umani», suggerendo di ricorrere alla Corte internazionale di giustizia contro la decisione della Cina.
Le proteste degli attivisti pro-democrazia preoccupano Pechino, sia per l’attenzione che il mondo gli rivolge, sia perché potrebbero portare altre zone centrali – Tibet, Xinjiang, Mongolia interna – a chiedere nuove riforme politiche che la Cina non è disposta a concedere.
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