Dopo Ucraina e Azerbaijan, i droni turchi sono arrivati anche in Marocco. Ankara ha da poco consegnato a Rabat il primo velivolo senza pilota e si appresta a inviare i restanti dodici sulla base di un accordo stipulato ad aprile con re Mohammad VI. La compravendita dei droni prodotti dalla Baykar, società privata gestita dal genero del presidente Recep Tayyip Erdogan, è un traguardo importante per la Turchia, che ha così raggiunto due diversi obiettivi.  

Prima di tutto, la presenza dei BT2 in Marocco permette ad Ankara di mettere piede in un altro paese del Nord Africa, dopo aver stretto un accordo con la Tunisia per la vendita dei droni Anka-S e aver schierato i velivoli senza pilota in Libia in difesa del governo onusiano di Tripoli. Ma consente anche alla Turchia di fare pressioni sull’Algeria, paese alleato ma non ancora del tutto allineato sul piano strategico.

Il ruolo dell’Algeria

Ankara è diventata negli anni il maggior investitore straniero nel paese nordafricano, superando anche la Francia con un investimento di 5 miliardi di dollari, un volume di scambi commerciali che si aggira tra 3,5 e 4,2 miliardi e ben 800 aziende turche attive in Algeria. Tutti elementi che giocano a favore dell’espansione turca in Africa e più in generale nel Mediterraneo.

Eppure, a livello strategico, tra i due paesi restano ancora alcune divergenze poco gradite a Erdogan, che mira a un maggior allineamento dell’Algeria anche in ambito militare.

Il presidente turco non ha mai perdonato Algeri per avergli negato l’utilizzo delle proprie basi militari in occasione della campagna in Tripolitania contro le forze del maresciallo Kalifa Haftar. L’Algeria inoltre è l’unico paese dell’Africa nordoccidentale a non aver ancora fatto richiesta per l’acquisto dei droni della Baykar, altro punto dolente nei rapporti con l’alleato turco. La vendita dei BT2 al Marocco è dunque un utile strumento di pressione sull’Algeria, che potrebbe rivalutare le sue priorità e proporsi come prossimo acquirente dei velivoli senza pilota turchi.

Intanto però la reazione di Algeri all’arrivo del primo drone in Marocco non è stata delle migliori. Il Consiglio supremo di sicurezza ha imposto la chiusura dello spazio aereo algerino ai voli provenienti da Rabat, sia civili che militari. Una mossa che arriva a distanza di un mese dalla rottura dei rapporti diplomatici tra i due paesi decisa dall’Algeria, che ha definito ostile l’atteggiamento del Marocco dopo le parole di sostegno nei confronti dell’auto-determinazione della regione algerina della Cabilia. Affermazioni che per Algeri rappresentano una vera e propria ingerenza nei suoi affari interni, miranti a destabilizzare la coesione sociale e territoriale.

Lo scontro tra i due paesi si è inasprito negli ultimi anni anche a seguito della normalizzazione dei rapporti tra Marocco e Israele nell’ambito degli Accordi di Abramo, sponsorizzati dall’allora presidente statunitense Donald Trump. In cambio, Rabat ha ottenuto il riconoscimento da parte degli Usa della sovranità sul Sahara occidentale, territorio tuttora conteso con il movimento indipendentista del Fronte Polisario, spalleggiato della vicina Algeria. Proprio nell’ambito della guerra contro i combattenti saharawi si colloca l’acquisto dei droni turchi da parte di Rabat, che può così aumentare le proprie capacità di risposta alla minaccia rappresentata dal Fronte Polisario e dai suoi sostenitori.

Droni e alleanze

Per la Turchia i droni prodotti dalla Baykar sono sempre più un mezzo con cui ampliare la propria proiezione in Africa occidentale, un’area che rientra nel progetto di espansione neo-ottomana alla base della politica estera di Erdogan. Grazie alla presenza dei velivoli senza pilota in Libia, Tunisia e Marocco, il presidente turco può contare su una base ancora più solida nel Mediterraneo che va al di là delle semplici relazioni culturali o commerciali, sicuramente utili ma di valore inferiore rispetto ai rapporti di dipendenza che la dotazione di droni comporta. Basti pensare che prima della consegna dei droni il Marocco ha dovuto inviare i propri piloti in Anatolia per un corso di addestramento, indispensabile per poter utilizzare i sistemi d’arma appena acquistati.

Il continuo espansionismo turco rappresenta però un problema per l’Italia e per l’Europa, le cui capacità di intervento nelle dinamiche mediterranee continuano a diminuire in favore di altri attori regionali. Ankara tra l’altro può contare sul beneplacito degli Stati Uniti, che preferiscono assistere alla proliferazione di sistemi d’arma prodotti da un paese membro dell’Alleanza atlantica piuttosto che dalla rivale Cina.

Gli Usa e altri stati occidentali hanno minore libertà di movimento nella vendita di determinati armamenti, dovendo in teoria valutare anche le credenziali democratiche dei loro potenziali acquirenti, e ciò lascia campo libero ad Ankara e Pechino. Nella competizione che si è aperta tra i due paesi, i maggiori successi sono quelli registrati dalla Turchia: Ankara ha recentemente sostituito Pechino in Kazakistan ed è in trattative con l’Arabia Saudita, che dopo il rifiuto statunitense si era rivolta alla Cina per l’acquisto dei Wing Loong.

Grandi affari

La crescente diffusione dei droni turchi nel mondo ha anche un significativo ritorno economico per Ankara: basta considerare che nel solo 2020 l’export militare ha raggiunto il valore di 3 miliardi di dollari. Le importazioni di armi sono invece scesa del 59 per cento, secondo i dati dello Stockholm international peace research institute. Questa crescita è stata possibile anche grazie agli investimenti effettuati negli ultimi cinque anni dal governo nel settore della difesa per un valore di 60 miliardi di dollari.

La Turchia è riuscita così a posizionarsi tra i maggiori dodici paesi produttori di droni, con ben 536 aziende attive nel settore dei sempre più richiesti velivoli senza pilota.

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