Non so più a chi chiedere aiuto. I nostri otto collaboratori afghani sono rimasti intrappolati lì, senza riuscire a fuggire. Eppure erano in lista per l’evacuazione da Kabul. Io da cittadino italiano sono spiazzato e demoralizzato. Questa è la storia di un tentativo di fuga dall’Afghanistan che è fallito, con tutti i rischi che ciò comporta per le persone ancora lì: visto che hanno collaborato con istituzioni e associazioni internazionali, adesso sono in serio pericolo. Ho deciso di raccontarla, questa storia, perché non trovo più altri modi per aiutare i nostri colleghi. Spero così di smuovere qualcosa.

Volevamo ricostruire

La nostra associazione Wave of Hope for the Future onlus, associazione senza fine di lucro di diritto italiano con filiali in Grecia ed Afghanistan, è stata fondata ed è gestita direttamente dai rifugiati afghani scappati dal proprio paese e arrivati in Grecia, dove dal 2019 gestiamo quattro scuole nei campi profughi di Lesbo (Moria), Atene (Malakasa e Ritsona) e Tessalonicco (Nea Kavala) per circa duemila studenti rifugiati con un personale di 70 insegnanti rifugiati e quattro volontari internazionali.

Nel 2020 abbiamo creato la nostra filiale in Afghanistan per far partire il progetto di ricostruzione e rilancio della scuola di Farza nel distretto rurale a nord di Kabul, al tempo privo di qualsiasi struttura scolastica. La scuola preesistente era infatti stata distrutta dai Talebani durante il periodo in cui occupavano l’area e, dopo aver demolito e ricostruito completamente l’edificio di due piani nel 2020, abbiamo riaperto la scuola di Farza a Febbraio 2021, dando educazione di base a oltre 650 studenti dai 6 ai 18 anni, fra cui tantissime bambine. In questi due anni di attività sul territorio, il nostro personale afghano ha anche partecipato e promosso direttamente molte iniziative di sensibilizzazione ai diritti umani, in particolare sulla situazione delle donne in Afghanistan, nonché la creazione di laboratori di pittura e scultura per giovani artisti ed artiste all’interno della nostra sede a Kabul.

La presa dei Talebani

Purtroppo da quando i Talebani hanno ripreso il controllo dell’Afghanistan, a seguito dell’abbandono delle truppe occidentali, la scuola di Farza è ovviamente chiusa e il nostro personale afghano coinvolto nel progetto di ricostruzione della scuola e che ha pubblicamente sostenuto battaglie per i diritti civili in Afghanistan, otto persone fra cui due donne e un minore, sono al momento ricercati dai Talebani.

Ecco allora cosa è successo nelle ultime due settimane. Quando abbiamo appreso della possibilita’ di corridoi umanitari per i civili afghani, ora in pericolo perché in passato hanno collaborato con istituzioni ed associazioni internazionali, ci siamo attivati subito scrivendo il 16 di agosto tramite Pec alla Farnesina, in particolare all’Unita’ di Crisi, e contestualmente alla nostra ambasciata Italiana a Kabul ed all’ambasciatore italiano Pontecorvo, per chiedere di poter inserire il nostro personale afghano di base a Kabul nelle liste dei civili in pericolo da trasferire fuori dall’Afghanistan con i voli umanitari.

Non avendo ricevuto nessuna risposta alla nostra richiesta del 16 agosto da parte delle istituzioni preposte alla gestione di questa crisi, abbiamo scritto il 19 di Agosto a Papa Francesco e all’associazione Sant’Egidio la quale ci ha immediatamente risposto inserendo i nostri dipendenti afghani (otto persone) nella lista dei civili afhgani che i nostri soldati italiani avrebbero dovuto far entrare nell’aeroporto di Kabul per prendere il volo che li avrebbe portati al sicuro in Italia, lista ovviamente concordata con il comandante ed il tenente dell’esercito italiano a capo delle operazioni di evacuazione.

Eppure erano in lista

Dalle prime ore dell’alba del 23 fino al momento dell’attentato suicida del 26 di agosto i nostri, insieme agli altri circa 60 civili afghani in pericolo di vita della lista della Sant’Egidio, sono stati davanti all’Abbey Gate, punto di ritrovo assegnatoci dall’esercito italiano per accedere all’aeroporto. La loro attesa, 4 giorni e 3 notti passati nell’acqua del canale che cinge il filo spinato ed il muro di cinta dell’aeroporto, è stata purtroppo vana perché date le condizioni in cui versava l’ingresso di Abbey Gate i militari italiani non sono riusciti ad uscire fuori ai diversi orari da loro comunicati per procedere con l’identificazione e l’ingresso in aeroporto delle persone della lista. L’attesa dei nostri, come di tutti i civili afghani che disperatamente stavano cercando di entrare in aeroporto per scappare ai Talebani, e’ finita con l’attentato suicida del 26 di agosto. Fortunatamente i nostri, e tutti quelli della lista della Sant’Egidio, sebbene presenti all’esplosione non sono rimasti feriti.

Esplosione e messaggi disperati

Di seguito un breve messaggio ricevuto  su whatsapp da uno di loro dopo l’esplosione, e che riporto testualmente a testimonianza di quanto accaduto: 

Hossein, Nemat and I and one other friend were in front of American armies and trying to show them our signs ( Santegidio) eagerly and yelling out to have their attention. thank god we are safe now but those who were infront of us all were dead. We all got bloody, the blood of our homies, which was the worst scenario I’ve ever seen and experiencing how close we were to lose our life in a way we were trying to find a way out of the country after 4 days and nights. 

First we thank Monica and Ali that they did thier best to help and support us all way that long without any expectaions but for sure it was the begining of a nightmare and may countinued. We are all waiting for you as hope to see what will be your decision to help all of us.

Dice in sintesi così: «Abbiamo provato a mostrare ai militari americani i segni di riconoscimento, di Sant’Egidio, abbiamo rischiato di perdere la vita, le persone davanti a noi sono morte nell’attacco, siamo insanguinati, abbiamo provato per quattro giorni e notti di lasciare il paese… Monica e Ali hanno provato ad aiutarci, stiamo vivendo un incubo e aspettiamo voi, siete la nostra speranza».

Nascosti in attesa

Ecco qual è la situazione del nostro personale al momento: dopo l’attentato suicida all’aeroporto del 26 agosto i nostri otto collaboratori si sono nascosti in un appartamento fuori Kabul in attesa di soluzioni alternative per scappare dal paese.

Sembrerebbe che ormai, visto che le forze occidentali hanno abbandonato l’aeroporto e il paese, l’unico modo per mettersi in salvo sia quello di raggiungere il confinante Pakistan via terra, molto probabilmente attraverso sentieri di montagna visto la presenza delle milizie Talebane sulla strada per il Pakistan.

Ci stiamo organizzando per farli partire al più presto e, nella maniera più sicura possibile, farli arrivare a Islamabad, in Pakistan.

Speriamo di riuscire a fare attraversare il confine fra Afghanistan e Pakistan ai nostri collaboratori afghani entro due-quattro giorni. Stiamo quindi chiedendo all’ambasciata italiana a Islamabad ed alla Farnesina, sempre via pec e sempre purtroppo senza alcun riscontro, di emettere i visti umanitari per poter permettere al nostro personale in pericolo di arrivare in sicurezza in Italia attraverso i corridoi umanitari.

Mail senza risposta

Ad oggi siamo alla sesta email pec di aggiornamento e sollecito alla Farnesina e, da quando i nostri militari e diplomatici hanno lasciato l’Afghanistan, anche alla nostra ambasciata Italiana di Islamabad in Pakistan per la richiesta del visto umanitario per i nostri collaboratori in fuga. Email rimaste purtroppo tutte senza risposta. Non voglio e non si può giudicare sommariamente l’operato dei militari o dei diplomatici che si trovino in una situazione di emergenza come quella che si è verificata in Afghanistan con il repentino abbandono dell’occidente, ma ancora una volta da cittadino italiano mi trovo spiazzato e demoralizzato dalla risposta, anzi dalla mancanza di risposta, del nostro apparato pubblico, burocratico e poco efficiente, che dovrebbe coordinare e gestire queste situazioni qui a Roma dalla comoda scrivania di un ministero.

Spero che la divulgazione di quanto sta accadendo serva a sensibilizzare le nostre istituzioni e a fargli concretamente emettere questi semplici fogli di carta (“visti umanitari”) che possono fare la differenza fra la vita e la morte per otto dei nostri leali collaboratori afghani, semmai riusciremo a farli arrivare sani e salvi in Pakistan.

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