Alla vigilia della cruciale “visita d’amicizia” tra Xi Jinping e Vladimir Putin a Mosca, val la pena riflettere su ciò che veramente conta dal punto di vista non solo geopolitico ma anche economico.

È certamente vero che è sempre più difficile distinguere il piano squisitamente economico da quello più scivoloso di natura geopolitica. È noto, inoltre, che c’è ormai un conflitto aperto, anche all’interno degli Stati Uniti, tra gli interessi delle imprese che hanno notevoli investimenti in Cina, e le istanze della politica e della sicurezza nazionale.

Queste ultime impongono un’autonomia strategica nella produzione delle componenti tecnologiche utilizzate nell’industria militare e non solo. Gli Stati Uniti, così come la Cina, hanno perso la leadership nella produzione di semiconduttori di nuova generazione a favore di Taiwan e della Corea del Sud. Queste componenti sono essenziali nella produzione di autovetture, smartphone, e apparecchiature medicali. Ma per gli Stati Uniti lo sono anche per mantenere la leadership nell’intelligenza artificiale e nell’industria militare. L’Europa è per lo più fuori da questa competizione che prevalentemente si gioca tra i due lati del Pacifico. 

L’impulso dell’èra Biden

Nel luglio dell’anno scorso il Congresso americano ha approvato in modo bipartisan un piano da 200 miliardi di dollari per i prossimi cinque anni per aumentare la produzione e la ricerca sul suolo statunitense e far riprendere agli Stati Uniti un ruolo di primo piano in quest’industria. A chi riceverà i sussidi e gli incentivi fiscali sarà vietato di espandere la produzione in Cina per dieci anni.

In novembre, il dipartimento del Commercio statunitense ha bandito l’esportazione di superconduttori di ultima generazione e di tecnologia avanzata verso la Cina, marcando un’ulteriore accelerazione nella guerra commerciale e tecnologica.

Come spesso accade, le decisioni dell’amministrazione americana si applicano non solo alle esportazioni statunitensi ma anche a qualsiasi società al di fuori degli Stati Uniti che produca con tecnologia statunitense, incluse le società di Taiwan che sono leader mondiali nella produzione di microchip avanzati. 

Ma le proibizioni sono andate anche oltre. Le nuove regole vietano ai cittadini statunitensi, ai residenti e ai titolari di carta verde di lavorare nelle aziende di chip cinesi. La mossa è stata definita da un think tank americano come «uno strangolamento con l’intenzione di uccidere».

Lo «strangolamento» e le reazioni

La Cina ha risposto annunciando misure per 143 miliardi dollari in incentivi e sussidi per sviluppare la propria industria di semiconduttori per ridurre così la sua dipendenza da Taiwan, che attualmente soddisfa il 70 per cento del suo fabbisogno, e raggiungere nei prossimi anni l’autosufficienza in questo settore. Per il momento, non si è spinta oltre. Non ha, ad esempio, limitato l’esportazione di terre rare, che sono le materie prime essenziali per questa industria. Ma in futuro le risposte potrebbero essere più sostanziose.       

Purtroppo, la tecnologia gioca un ruolo sempre più importante nello scacchiere politico. Sono passati infatti i tempi in cui la globalizzazione era spinta soprattutto dalla ricerca di luoghi di produzione a basso costo, dalla quale tutti traevano beneficio. Alcuni paesi emergenti, e soprattutto la Cina di allora, venivano sollevati dalla povertà ed entravano nel sistema economico mondiale, mentre nei paesi sviluppati i consumatori potevano beneficiare di prodotti a basso costo. Se si tralasciano alcuni pur cruciali aspetti sociali e occupazionali per i paesi avanzati, questa era una situazione win-win per l’economia mondiale. Tutti ne traevano beneficio. 

Ora la partita è diversa. Si gioca sulle grandi sfide tecnologiche e tra piattaforme digitali che intermediano molti ambiti dell’attività economica. Con l’utilizzo sempre più estensivo dell’intelligenza artificiale e delle tecnologie più avanzate vi sarà presumibilmente un’accelerazione in questo scontro.  

Lo scontro e le alternative

Il rischio è che si vada verso una frattura netta tra le economie occidentali, sempre più dipendenti dall’ala protettiva tecnologica e militare degli Stati Uniti, e la Cina, che in modo crescente attrae a sé il supporto del complesso e variegato mondo dei paesi emergenti. Il recente accordo tra Arabia Saudita e Iran orchestrato dalla Cina è la dimostrazione plastica di come la Cina stia giocando sempre più a tutto campo nella diplomazia economica internazionale.    

Se non ci fossero perdite e drammi umani di dimensioni colossali, il conflitto in Ucraina potrebbe essere liquidato come una scaramuccia rispetto ai grandi giochi della geopolitica e dell’economia internazionale.

Eppure, potrebbe esser visto anche come un’opportunità. Potrebbe essere l’occasione per ripensare la governance mondiale su basi più paritarie e inclusive, coinvolgendo la Cina come un attore importante e responsabile per garantire il progresso pacifico mondiale sulla base di regole condivise. Questo aiuterebbe a evitare futuri conflitti, darebbe accesso alle risorse mondiali a tutti i paesi, garantirebbe il diritto allo sviluppo economico ad una grande fetta del mondo che stenta ad uscire dal sottosviluppo, ed eviterebbe nuove fratture e divisioni. Aiuterebbe anche l’economia mondiale a superare l’attuale clima di pessimismo e ripresa lenta.

L’alternativa, ovvero la divisione del mondo in nuovi blocchi, è talmente devastante per le prospettive economiche e per la vita di tutti i cittadini che vien da chiedersi se gli strateghi politico-militari nelle varie capitali si siano mai posti il problema.        

La Cina ha recentemente pubblicato un testo in 12 punti chiamato Posizione sulla risoluzione politica del conflitto in Ucraina. In quasi contemporanea ha lanciato una “Iniziativa Globale sulla Sicurezza”. I testi sono ricchi di pillole avvelenate che rovinerebbero lo stomaco a qualsiasi diplomatico occidentale, ma anche di buone intenzioni. Potrebbe esser preso come una prima base di partenza per riallacciare i rapporti di collaborazione con la Cina e riconnetterla ad una comunità allargata internazionale basata sul mutuo rispetto e sulla pace.   

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