Quanti sono i conflitti congelati? Molto più numerosi di quanto pensiamo. Di alcuni si è addirittura persa memoria. Sono più o meno noti quelli tra le due Coree, nei Balcani, del Kashmir, Taiwan, Cipro o Medio Oriente. Molto più difficile ricordare quelli dell’ex Sahara spagnolo, della Transnistria, Abkhazia, Ossezia e così via. Spesso si tratta di dispute territoriali sorte (o risorte) dopo la fine dell’Urss. Sono “guerre medie” cioè quel tipo di conflitti che sembrano non mettere a repentaglio la pace mondiale e quindi spesso tollerati. Guardando più da vicino, tuttavia ecco stagliarsi la mappa della “guerra mondiale a pezzi” di cui parla papa Francesco. Come le linee di molteplici faglie sotterranee, sono guerre pronte ad esplodere in ogni momento, provocando improvvisi terremoti in superficie. Tale è la caratteristica dei conflitti congelati: non lo sono mai del tutto e quando scoppiano colgono di sorpresa la comunità internazionale che si è distratta.

Il Nagorno-Karabakh è uno di questi, congelato dal 1994 ma neanche tanto visto che nel 2016 ci furono aspri combattimenti durati quattro giorni. La prima guerra è stata tra il 1988 e il 1994, causando circa 30mila morti. Nel suo perenne gioco truccato del bilanciamento tra nazionalità e religioni, nel 1921 Stalin aveva ordinato di unire il Nagorno -Karabakh cristiano e armeno all’Azerbaijan turcofono e musulmano: un modo per rafforzare il ruolo del centro sovietico e tenere tutti in bilico. La scelta non fu mai digerita dalle popolazioni locali. Credendo che con la perestroika di Gorbaciov stesse cambiando tutto, nel 1988 gli armeni dell’enclave erano scesi in strada per manifestare in favore dell’annessione all’Armenia che li sostenne. Per loro si trattava di un semplice “ritorno”.

Per gli azeri invece fu un’umiliazione, una violazione grave delle frontiere che stavano per diventare internazionali. A Baku gli azeri reagirono con pogrom contro gli armeni che vivevano in Azerbaijan e che dovettero fuggire. Da quel momento un solco profondo ha diviso i due popoli: l’Armenia ha annesso la regione e occupato circa il 15 per cento di territorio azero. I ripetuti negoziati della comunità internazionale hanno tentato varie formule di risoluzione: autonomia, scambio di territori, eccetera, senza nessun risultato e senza riuscire ad imporre una forza di interposizione ma solo un instabile armistizio.

All’epoca l’Armenia era militarmente più forte ma oggi lo è Baku grazie ai soldi del petrolio e al ruolo strategico conquistato nella “guerra dei tubi”, cioè gli oleodotti. Il noto Tap che sbarca in Puglia viene da lì.

La politica espansionista di Erdogan

Il vantaggio militare azero dei giorni scorsi è fondamentalmente dovuto ad armi più sofisticate, comprate in Turchia e Israele, soprattutto droni armati. Tra l’altro si tratta di una terra carica di storia e di vicende dolorose. Con la ripresa del conflitto sono riemersi in maniera prepotente i fantasmi del passato, soprattutto quelli del genocidio degli armeni.

La volontà del presidente turco Erdogan di realizzare una politica espansionista a tutto tondo, ha portato la Turchia a intervenire dalla parte di Baku in maniera attiva. Oltre che a fornire armamenti, Ankara ha fatto affluire miliziani siriani, ormai una vera e propria legione straniera turca utilizzata anche in Siria, Libia e altrove. L’ombra del genocidio del 1915 (mai ammesso dai turchi) si è profilata di nuovo, tanto che il premier armeno ha definito l’attacco una «minaccia esistenziale».

Dal punto di vista giuridico le ostilità mettono in campo due principi contrapposti: quello dell’autodeterminazione dei popoli e quello dell’intangibilità delle frontiere. Ciascuno dei due contendenti riconosce solo il proprio, negando l’altro.

Putin è stato colto di sorpresa: Mosca è imbarazzata dalla ripresa dei combattimenti e cerca di ripristinare lo status quo, come dimostra la fragile tregua dell’altro giorno. Da un lato la Russia dovrebbe sostenere l’Armenia perché quest’ultima è parte dell’Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva, il patto militare che permette ai russi di mantenere basi militari nell’area.

Dall’altra non vuole regalare l’Azerbaijan – uscito dal trattato –  all’influenza turca: sarebbe un ritorno a prima della Grande guerra. A complicare il quadro c’è il fatto che il nuovo premier armeno Pachinian non è filo Putin ma filo occidentale, e mantiene con il leader russo una relazione ambivalente.

Diritto internazionale e volontà popolare

Solo Mosca oggi può salvare gli armeni ma a che prezzo? Baku scommette che alla fine i russi costringeranno Erevan a lasciare il Nagorno-Karabakh perché il trattato di difesa li garantisce soltanto dentro i confini ufficiali riconosciuti dalla comunità internazionale mentre l’annessione del Nagorno- Karabakh non è stata mai riconosciuta da nessuno. Questo spiega perché in questi giorni di guerra gli azeri sono stati molto attenti a bombardare solo il Nagorno-Karabakh e mai l’Armenia, attaccando le difese armene solo nei territori azeri occupati.

Dal canto suo invece Erevan colpisce con i missili le città azere. Un intrico difficile da sbrogliare in cui storia, diritto internazionale e volontà popolare si attorcigliano in un unico nodo gordiano.

Se per Mosca la crisi è un grattacapo, per Ankara si tratta di una situazione win-win: o i suoi alleati azeri vincono oppure potrà negoziare un nuovo patto con Mosca anche nel Caucaso meridionale.

Il suo status geopolitico non fa che aumentare di peso. Da considerare una postilla che rende tutto lo scenario ancor più singolare: circondata da paesi ostili e non amici, come porta d’entrata e d’uscita via terra all’Armenia rimane aperta solo la frontiera con Teheran. Per sopravvivere, agli armeni serve che le relazioni con l’Iran restino eccellenti.

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