Il presidente del Consiglio Mario Draghi ha effettuato la sua prima visita all’estero in Libia. Una meta non casuale visto che si è da poco insediato il nuovo governo guidato dal primo ministro Abdul Hamid Mohammed Dbeibah.

Un governo nato sotto l’egida dell’Onu a Ginevra e che inizia il suo mandato a dieci anni dallo scoppio delle proteste che hanno gettato la Libia nel caos della guerra civile. Ma come si è arrivati a questo punto? Il colonnello Muammar Gheddafi in pochi mesi ha perso il controllo del paese e le divergenze tribali, tenute a bada attraverso concessioni petrolifere e la repressione, sono venute a galla dividendo il paese.

2011: L’inizio delle proteste

Con le proteste a Place de la Kasbah in Tunisia e le manifestazioni imponenti di piazza Tahrir in Egitto era inevitabile che l’onda rivoluzionaria straripasse anche verso la Libia. Tuttavia, a differenza delle istanze tunisine ed egiziane, quelle del popolo libico avevano una base più politica che economica. Con il petrolio Muammar Gheddafi ha sempre cercato di accontentare tutti e tenere a bada le circa 140 tribù sparse per il paese, ma la primavera araba è stata l’occasione perfetta per porre fine ai 42 anni di regime.

Anche qui, come in Egitto e in Tunisia, la rete e i social network hanno svolto un ruolo cruciale nel catalizzare le proteste. La prima manifestazione è del 16 febbraio, giorno in cui viene arrestato in un noto avvocato per i diritti umani. Alle proteste partecipano migliaia di persone e la violenza del regime, che non ha mai avuto scrupoli a usare la forza, non si fa attendere. Dopo poche ore si contano già i primi morti per mano delle forze di sicurezza libiche che usano armi da fuoco per disperdere i manifestanti, soprattutto nella città di Bengasi che in questa prima fase è l’epicentro delle proteste. Il 18 febbraio si contano circa una cinquantina di morti a dimostrazione che l’escalation è rapidissima e brutale.

©AP/Lapresse 01/09/2009 Tripoli,Libia estero Festeggiamneti per il 40¡ anniversario del colpo di stato del 1969 nella foto: Moammar Gadhafi

L’inizio della guerra civile

Le forze d’opposizione fomentano i cittadini a continuare le proteste e la rivolta scoppia anche nelle carceri di Tripoli dove si verificano le prime evasioni. Inutili i tentativi di “chiudere” l’accesso a internet. Nella Cirenaica, regione orientale della Libia e più ostile al governo centrale, la situazione è in incandescenza. Ed è qui, nella città di Bengasi, che il figlio del colonnello, Saad Gheddafi rimane intrappolato in un albergo circondato dai manifestanti. Per liberarlo il padre invia oltre mille uomini della sicurezza e per sedare le proteste nei quartieri più incontrollabili della città Gheddafi ha assoldato anche dei mercenari africani e serbi. Una scelta che ha alimentato episodi discriminatori tra la popolazione. In pochi giorni a Bengasi si raggiunge la cifra di trecento morti. Anche a nell’area di Tripoli la situazione degenera, ma Gheddafi non può permettersi di perdere il controllo della capitale e così autorizza i primi bombardamenti sui civili, decretando l’inizio del conflitto interno.

Le forze di opposizione avanzano a Bengasi, Sirte, Misurata e Tobruch. Il Rais è accerchiato sia nella Cirenaica sia in Tripolitania e si trova costretto a fare un annuncio televisivo. «Chiunque rivolgerà le armi contro lo stato dovrà essere ucciso» dice, aggiungendo che se sarà necessario brucerà tutto. Parole e frasi che fanno rabbrividire parecchi membri dell’esercito e danno vita alle prime defezioni. Due piloti a bordo di due caccia bombardieri si rifiutano di sganciare bombe su Bengasi, così come due navi militari che si rifugiano in acque maltesi.

Le prime fughe

I funzionari stranieri iniziano a lasciare il paese e in una sola settimana dall’inizio delle proteste si contano migliaia di morti. Scappano anche alcuni membri della famiglia del colonnello. La figlia, Aisha Gheddafi, chiede di atterrare a Malta, ma le viene negato l’asilo. La stessa cosa accade in Libano con altri famigliari che poi si rifugeranno in Algeria e Niger.

A Gheddafi non resta che proteggere Tripoli e per raggiungere il suo obiettivo mette a disposizione della popolazione i depositi di armi per combattere. Davanti alla brutale repressione del colonnello a livello internazionale si muovono i primi passi che porteranno poi alla sua destituzione. Il 28 febbraio il Consiglio europeo introduce un embargo sulle armi su spinta delle Nazioni unite e congela i beni di Gheddafi e la sua cerchia.

Ad Al Zawiya, a una manciata di chilometri da Tripoli, passano i carri armati tra i crateri provocati dai mortai dell’esercito centrale. Il numero dei morti non si ferma più. A inizio marzo i ribelli propongono a Gheddafi di non avviare un processo per crimini contro l’umanità nel caso in cui lasciasse il potere. Ma il colonnello non ne vuole sapere e i caccia libici continuano a sganciare bombe tra i civili e i ribelli. Misurata, Bengasi, Agedabia, le “roccaforti” dei ribelli sono nel mirino dei bombardamenti.

L’intervento internazionale e la morte del colonnello

ll 17 marzo del 2011 il consiglio di sicurezza dell’Onu approva una no-fly zone sulla Libia a seguito delle pressioni di Parigi. Due giorni dopo, il governo di Sarkozy avvia l’operazione Harmattan e i caccia francesi lanciano le prime bombe contro le forze lealiste di Gheddafi. Qualche ora più tardi navi statunitensi e britanniche lanciano missili Tomahawk a supporto dell’azione militare francese.

Il 25 marzo le azioni dei singoli stati si uniscono nell’operazione Unified Protector a guida della Nato. L’Italia, durante il governo Berlusconi, fornisce supporto attraverso le sue basi militari, tra cui Sigonella, Gioia del Colle e Trapani, da dove partono i cacciabombardieri americani, francesi e britannici. Il 28 aprile è il turno dell’aviazione italiana e due Tornado volano sopra la Libia sganciando le prime bombe.

Lapresse Gioia del Colle (Ba)

La guerra apre una crisi umanitaria e l’Unicef denuncia il rischio dello scoppio di epidemie sanitarie per via della carenza d’acqua dovuta ai bombardamenti della Nato che hanno colpito alcuni acquedotti.

Il Consiglio nazionale di transizione (Cnt), un organo costituitosi il 27 febbraio e rappresentante l’opposizione al regime di Gheddafi ha assicurato la stesura di una nuova costituzione entro otto mesi e nuove elezioni democratiche.

Il 21 ottobre 2011 nella città di Sirte si combatte tra i lealisti e i ribelli. Qui si trova il Rais che cerca di scappare per mettersi in salvo ma viene attaccato da un raid della Nato. Da lì a poco giungono sul posto i ribelli del Cnt che uccidono il colonnello libico. Le immagini fanno il giro del mondo e ritraggono la Browning 9mm placcata d’oro che ha decretato la fine del regime. Insieme a Gheddafi viene giustiziato anche il figlio Mutassim. Dopo 42 anni, la Libia è senza guida.

2012-2013: Il dopo Gheddafi

Morto il colonnello, il Consiglio nazionale di transizione (Cnt), sostenuto da paesi come Francia, Turchia e Qatar ha provato a imporsi come autorità centrale per dare vita a un processo di transizione politica. Un compito difficile dovuto alla frammentazione del paese che mina una riconciliazione pacifica e duratura. Alle divergenze tribali si somma la presenza di circa 800 gruppi armati, formati da su per giù 200mila uomini, ognuno dei quali reclama la sua fetta di potere. Nascono partiti politici con una vocazione più locale che nazionale e l’Islam assume un ruolo sempre più rilevante nella definizione della nuova identità del paese.

L’economia dipende interamente dal petrolio e a marzo 2012 la produzione del settore torna quasi ai ritmi del 2010, ovvero prima dell’inizio del conflitto civile. Infatti, sono proprio i giacimenti e le raffinerie a finire nel mirino delle varie milizie che con il contrabbando di gas e petrolio fanno affari e aumentano la loro sfera di influenza (leggi qui l’inchiesta di Domani sul petrolio libico)

A luglio del 2012 si svolgono le prime elezioni parlamentari e il Consiglio nazionale di transizione lascia il posto al neoeletto Congresso Nazionale Generale (Cng), formato anche dagli islamisti, che nomina come primo ministro l’avvocato per i diritti umani Ali Zeidan.

Tra le sfide più complicate del nuovo esecutivo c’è ilcontrasto al radicalismo islamico che dilaga approfittando dell’instabilità politica. L’11 settembre alcuni miliziani di Ansar al-Sharia, un gruppo terrorista affiliato ad al Qaeda, attaccano il consolato statunitense a Bengasi. Muore l’ambasciatore americano Christopher Stevens e altre tre persone. Nel gennaio del 2013 viene attaccata l’auto di un altro diplomatico, questa volta è il console italiano Guido de Santis, che fortunatamente ne è uscito indenne.

La situazione è tesa in tutto il paese e l’anno scorre con i jihadisti che avanzano nella Cirenaica tra Bengasi e Sirte incontrando un’opposizione flebile. A marzo 2014 il primo ministro Zeidan viene sfiduciato e rimpiazzato da Abdullah al-Thani.

2014: l’ascesa del generale Haftar

Nel maggio del 2014, il generale dell’ex esercito di Gheddafi, Khalifah Haftar, lancia un’operazione militare (Al Karama, la dignità) guidando l’autoproclamato Esercito nazionale libico contro i miliziani di Ansar al Sharia a Bengasi. Il primo ministro al-Thani equipara l’operazione a un tentativo di colpo di stato e si apre una nuova crisi politica. Le milizie di Zintan alleate con Haftar attaccano la sede del parlamento a Tripoli per ottenerne la dissoluzione. Succede tutto rapidamente e il Congresso nazionale generale è costretto a indire nuove elezioni parlamentari. L’affluenza è del 18 per cento e gli islamisti ne escono decisamente indeboliti. Il nuovo parlamento si riunisce a Tobruch, come deciso inizialmente, per cercare di avvicinarsi alla Cirenaica.

Il generale libico Haftar Copyright 2020 The Associated Press

Il 25 agosto gli islamisti insieme ad altri membri del vecchio Congresso nazionale generale si autoproclamano parlamento legittimo con la capitale come loro centro politico.

Il paese risulta così diviso tra due governi rivali, con Tripoli e Misurata controllate da forze leali al nuovo Congresso Nazionale Generale di Tripoli, mentre la comunità internazionale continua a riconoscere il governo di Abdullah al-Thani e il suo parlamento a Tobruch.

2015: l’attacco all’Isis

Il 3 ottobre, a Derna, una formazione islamista radicale, Majlis Shura Shabab al-Islam, dichiara la propria affiliazione allo stato Islamico di Abu Bakr al-Baghdadi, proclamando il territorio sotto il suo controllo come parte del califfato. La violenza jihadista è sempre più brutale. Il 15 febbraio, i miliziani dell’Isis in Libia pubblicano un video raffigurante la decapitazione di ventuno cristiani copti egiziani. L’Egitto, preoccupato per la sua stabilità lungo il confine libico effettua alcuni bombardamenti a Derna in coordinazione con il generale Haftar, che con il generale al Sisi due stringe un’alleanza decisiva negli anni successivi.

Alla violenza del terrorismo si aggiunge la crisi umanitaria dei migranti che rinchiusi in centri di detenzione, dove subiscono le pene dell’inferno da milizie e brigate, tentano di raggiungere l’Europa. Il 18 aprile 2015, un barcone carico di persone si rovescia al largo delle coste libiche provocando almeno 750 morti. Una data che rimarrà impressa nella coscienza dell’Europa.

Migrants, most of them from Eritrea, are assisted by aid workers of the Spanish NGO Open Arms, after being located sailing adrift on an overcrowded wooden boat in the Mediterranean sea, about 85 miles north of Libya, on Friday, Dec. 31, 2020. (AP Photo/Joan Mateu)

La nomina di al-Sarraj e gli schieramenti internazionali

Per porre fine allo stallo e allo scontro tra est e ovest nel paese, l’8 ottobre del 2015, l’inviato speciale dell’Onu Bernardino León annuncia che Fayez al Sarraj è il primo ministro del nuovo governo di unità nazionale che dovrebbe ricevere il voto favorevole dei due parlamenti, ma la Camera dei rappresentati di Tobruch nella Cirenaica non gli concede la fiducia. A dicembre anche il Governo di accordo nazionale (Gna) di Al Sarraj sferra attacchi congiunti all’Isis, che gode ancora di parecchi combattenti attivi nel paese.

LaPresse

2016-2019: L’avanzata di Haftar

L'11 settembre l’Esercito nazionale libico di Haftar lancia un’offensiva contro alcuni porti della mezzaluna petrolifera. È il primo scontro su larga scala tra il generale e le forze allineate al Governo di accordo nazionale. Proprio come la Siria anche la Libia diventa uno scacchiere in cui agiscono pedine internazionali. Russia, Egitto, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti appoggiano Haftar, con i paesi arabi che si pongono in chiavi anti fratellanza musulmana. Il generale viene ospitato da Vladimir Putin a Mosca a cui chiede sostegno militare, mentre l’Onu e paesi come l’Italia, la Turchia e il Qatar sostengono il governo di Sarraj.

Il 2 febbraio del 2017 il presidente del Consiglio italiano Paolo Gentiloni firma insieme ad al Sarraj il Memorandum Italia-Libia voluto fortemente dall’ex ministro dell’Interno Marco Minniti. Obiettivo dichiarato dell’accordo è di ridurre il flusso migratorio proveniente dalle coste libiche. L’Italia quindi inizia a fornire sostegno finanziario, addestramento, mezzi e attrezzature alla Guardia costiera libica per intercettare i barconi che partono verso l’Europa e respingere i migranti (leggi qui) nei centri di detenzioni libici. I primi risultati dell’accordo non tardano ad arrivare, così come le violazioni di diritti umani denunciate dalle Nazioni unite, i cui funzionari sono stati più volte impossibilitati a verificare le condizioni di vita all’interno dei centri libici dove vengono rinchiusi i migranti.

Il paese rimane ancora molto instabile. A fine febbraio lo stesso Sarraj riesce a uscire illeso da un attentato ma la sua figura politica è ridimensionata per le evidenti difficoltà che incontra nel controllare il territorio. Haftar, invece, accresce il suo consenso internazionale e viene visto come un argine all’avanzata dell’Isis.

In estate il presidente francese Emmanuel Macron ospita un vertice a Parigi con la presenza dell’Onu e invita al Sarraj e Haftar parificando i due schieramenti che arrivano a siglare un cessate al fuoco. Ma in pochi mesi il generale dichiara concluso il mandato del suo rivale e si inasprisce il conflitto di nuovo. L’Onu indice nuove elezioni per il 2018 ma il conflitto civile, le scorribande delle milizie e l’offensiva ancora aperta con i gruppi jihadisti costringono a posticiparle al 2019.

L’obiettivo di Haftar però è chiaro: prendersi Tripoli. Lancia così un’offensiva nella regione centrale del Fezzan avanzando verso la capitale. Il governo di accordo nazionale di Sarraj si difende e in una serie di bombardamenti uccide 35 mercenari russi del Gruppo Wagner, un contractor militare privato già impiegato da Putin in Siria e ora al fianco di Haftar.

Al Sarraj chiede aiuto all’amico Erdogan, con cui firma un accordo militare e marittimo. Il parlamento di Ankara autorizza l’invio di soldati e mercenari turchi, li stessi impiegati nella provincia di Idlib in Siria, ma l’intervento turco viene condannato dalla comunità internazionale.

2020: l’anno della pandemia

Il 4 gennaio 2020, qualche mese prima della pandemia, l’esercito di Haftar sferra un attacco contro la città di Sirte ed entra in città. Il 19 gennaio a Berlino si tiene una conferenza di pace guidata dalle Nazioni unite. Sono presenti i due leader libici e molti capi di stato che lanciano un appello per mantenere il cessate il fuoco e l’embargo militare. Tuttavia ancora oggi alcuni stati continuano a portare armi in Libia, come l’Egitto del generale al Sisi.

Anche qui arriva la pandemia. Stando ai dati ufficiali dell’Oms si contano 178mila contagi e oltre tremila decessi. Ad agosto arriva la svolta politica, il premier di Tripoli al Sarraj e quello di Tobruch, al-Thani, si impegnano a rassegnare le dimissioni e avviare un processo per la formazione di un nuovo Consiglio presidenziale che sostituisca i due attuali governi e accontenti entrambe le fazioni. Viene firmato un cessate il fuoco e chiesto alle truppe straniere di lasciare il territorio.

2021: L’insediamento del nuovo governo

Il 10 marzo 2021 si è costituito il nuovo governo ad interim di unità nazionale, guidato dal businessman vicino a Mosca e Turchia Abdul Hamid Dbeibah, che dovrà guidare il paese verso le elezioni del 2022. Dbeibah è stato eletto il 5 febbraio scorso da 75 delegati del Forum del dialogo politico libico, una sorta di grandi elettori che sotto l’egida dell’Onu a Ginevra hanno deciso chi sarà a guidare il processo di transizione politica libico. Insieme a Dbeibah è stato votato anche un consiglio presidenziale composto da tre membri e presieduto da Mohammad Younes Menfi, un diplomatico libico sostenuto da Haftar. Una scelta che ha cercato di accontentare entrambe le parti in gioco.

Ora al primo ministro Dbeibah spetta una sfida difficile, ricostruire quasi da zero un paese su cui le aziende europee vogliono metterci le mani e cacciare dal suo territorio ciò che ne rimane dei soldati turchi e russi per avviare una transizione politica e voltare una pagina violenta e sanguinosa che ha caratterizzato gli ultimi dieci anni della storia libica.

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