Noy Katsman ha 27 anni, un’infanzia passata tra Petah Tikva, a sud est di Tel Aviv, e Be’er Sheva, nel mezzo del deserto del Negev israeliano. Da poco vive a Lipsia, in Germania, dove studia sociologia, antropologia e storia dell’arte. Sogna di viaggiare in Italia: «La sto scoprendo attraverso i libri e le lezioni, ma non l’ho mai visitata», dice. Nonostante la distanza, anche Noy è stato toccato dalla strage del 7 ottobre: i terroristi di Hamas hanno ucciso il fratello Hayim, 32 anni, che viveva nel kibbutz Holit, a soli due chilometri dalla Striscia di Gaza, uno dei primi ad essere attaccato.

«Appena ho iniziato a leggere le notizie ho scritto a mio fratello», ricorda Noy. «Mi ha risposto che aveva sentito l’allarme, ma la situazione era tranquilla. Dopo qualche ora ho provato a sentirlo di nuovo, ma nessuna risposta. Ho pensato che fosse impegnato a rispondere ad altri parenti e amici che chiedevano notizie». La conversazione è interrotta da qualche secondo di silenzio. Noy cerca di domare l’emozione, riordina i pensieri, cerca le parole, che poi fluiscono in un inglese perfetto. «I miei genitori sono molto religiosi, perciò non usano il telefono di sabato. Ho potuto sentirli solo dopo il tramonto, ma anche loro non avevano notizie». Alle 5 di mattino del giorno dopo, la conferma del ritrovamento del cadavere.«Preferisco non parlare dei dettagli», dice.

I dettagli, terrificanti, li ha raccontati Avital Alajem, amica di Hayim, in un’intervista alla Cnn: «Eravamo nascosti insieme nel guardaroba di un rifugio. Quando sono arrivati, i terroristi hanno sparato verso la porta. I proiettili li ha presi tutti lui». Avital invece, incolume, è stata catturata e portata nella Striscia insieme ai figli di un vicino, uno di 4 anni e l’altro di 4 mesi e mezzo, ma poi è riuscita a fuggire portando in salvo anche i bambini.

«Ho sempre guardato a Hayim e trovato ispirazione – ha scritto Noy nell’eulogia che ha letto durante il funerale e pubblicato poi sui social – entrambi eravamo insoliti, per la nostra famiglia e anche per la nostra società». Dei sei fratelli, racconta, erano gli unici due non osservanti. Con il fratello, Noy condivideva anche l’impegno politico e sociale: «Hayim era un attivista per la pace. Faceva volontariato a Masafer Yatta, a sud di Hebron, in Cisgiordania, per proteggere i palestinesi minacciati di espulsione dai coloni e dall’esercito israeliano». Aveva anche una grande passione per la musica: sulle foto di Facebook lo si vede suonare il basso e mixare alla console, lunghi capelli ricci e un sorriso enorme. «Musica araba», si legge nella descrizione.

Il ruolo dei coloni

«Il mio governo ha fallito nel più elementare dei suoi compiti: garantire la sicurezza, di mio fratello e di tutti i cittadini», dice Noy, che adesso parla senza più sospirare, con la decisione delle convinzioni maturate nel tempo e la rabbia di chi le ha viste confermate nel più tragico dei modi. «Quello che è successo è il frutto delle stupide politiche di Netanyahu e i suoi alleati: da un lato, rafforzare la separazione tra Gaza e la Cisgiordania, favorendo Hamas, per rendere impossibile la creazione di uno stato palestinese indipendente. Dall’altra, concentrare tutte le risorse sul rafforzamento dell’occupazione e la protezione dei coloni per rincorrere la fantasia che tutto il territorio dal fiume Giordano al Mediterraneo diventi un giorno ebraico. Se ci pensi è assurdo, abbiamo un governo che si preoccupa di più di quelli che vivono fuori da Israele, i coloni, rispetto a quelli che vivono dentro».

Al ruolo dei coloni nella politica dello Stato ebraico Hayim aveva dedicato parte della sua attività da ricercatore, svolta tra Israele e gli Stati Uniti, per la quale aveva ottenuto diversi riconoscimenti. In una delle ultime ricerche, di cui aveva pubblicato una sintesi sul quotidiano Haaretz, analizzava l’ascesa del sionismo religioso, il movimento di estrema destra di Ben-Gvir e Smotrich, oggi al governo con Netanyahu, attraverso la teoria dell’egemonia di Gramsci.

«Identificare correttamente i processi sotterranei che stanno interessando la destra potrà aiutare l’opinione pubblica a proteggersi da loro», concludeva. Noy ha le idee chiare anche sulla risposta israeliana all’attacco in cui Hamas ha ucciso suo fratello. Mentre Israele assedia Gaza dal cielo e via terra: «Non servirà a nulla. Il governo lo fa per recuperare consensi dopo l’evidente fallimento del 7 ottobre, ma uccidere civili innocenti non farà che aumentare l’odio e la violenza.

Lo dimostra l’esperienza: negli ultimi 20 anni hanno continuato a ripeterci che le bombe sono la soluzione, che “questa volta li facciamo fuori”, “ristabiliamo la sicurezza una volta per tutte”, eppure gli attacchi hanno continuato a ripetersi. Tanti però si fidano, e non perché siano convinti dell’efficacia di questa strategia, ma perché non riescono ad immaginare una strada diversa».

Accordo di pace

La strada diversa a cui pensa Noy è quella a cui Hayim ha dedicato tanto del suo tempo e del suo impegno: un accordo di pace duraturo che preveda la fine dell’occupazione.

«Giustizia e libertà per tutti, from the river to the sea», sintetizza Noy, parafrasando lo slogan caro ai sostenitori della causa palestinese e spesso frainteso come un appello alla distruzione di Israele.

Per arrivarci, dice, bisogna prendere coscienza che «la stragrande maggioranza delle persone da entrambe le parti perdono dalla situazione odierna. Sia gli israeliani che i palestinesi pagano i danni dell’insicurezza a cui lo status quo ci condanna. A guadagnarci sono solo i leader politici che ricavano consensi dall’odio e dalla vendetta e i coloni, che continuano a prendersi le terre gratis e con la protezione dell’esercito. Ma se tutti gli altri capissero che lo status quo non conviene, allora potremmo convivere pacificamente». Come primo passo, dice Noy, serve che si fermino le bombe su Gaza: «Non ho dubbi, è ciò che chiederebbe anche mio fratello».
 

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