La guerra senza la guerra. Questo è il senso dell’atteso discorso di Nasrallah. Il leader di Hezbollah esprime la solidarietà dell’«Asse della Resistenza» alla «coraggiosa» battaglia di Hamas contro «l’occupante sionista», ritenuta «legittima», e ribadisce l’inimicizia assoluta nei confronti di Israele. Ma il capo del Partito di Dio si è ben guardato dallo spingersi oltre.

A conferma che la necessità di salvaguardare l’integrità del movimento dalla prevedibile, dura, reazione israeliana in caso di aperta discesa in campo nel conflitto – quelli al confine sud del Libano, pur pesanti, non sono, per ora, che colpi di una guerra a bassa intensità, politicamente gestibili nello scenario interno e in quello esterno – prevale oggi su ogni altra considerazione.

Del resto, ci ha tenuto a ribadire Nasrallah, «l’operazione del 7 ottobre è stata una decisione totalmente autonoma» e segreta di Hamas, non legata ad alcun «dossier regionale o internazionale». Parole pronunciate per smentire non solo un coinvolgimento diretto del suo movimento nell’attacco ma anche quello dell’Iran – cosa, peraltro, di cui paiono convinti anche gli americani – che secondo Nasrallah non eserciterebbe alcuna tutela sulla leadership del «movimento di resistenza» in Libano come in Palestina.

Un discorso necessario

Un discorso che cambia poco il quadro del conflitto ma che il leader sciita doveva fare. Il suo lungo silenzio in questo mese di guerra aveva destato interrogativi e perplessità anche tra i suoi seguaci, accorsi in massa, con i loro vessilli gialli innalzati significativamente insieme a quelli del Libano, della Palestina, dell’Iran e dello Yemen, per vederlo e sentirlo, sia pure virtualmente, negli schermi eretti nella piazza Ashura di Beirut sud come nella moschea Hussein di Nabatyeh.

Ma anche i palestinesi attendevano le sue parole, sperando nell’apertura di un secondo fronte per alleggerire la pressione su Gaza dove, secondo Nasrallah, è in corso una battaglia decisiva non solo per le sorti dei palestinesi ma dell’intera regione mediorientale.

Stretto tra la necessità di garantire la continuità del movimento che guida, tenere fuori dalla guerra un paese allo stremo per la crisi economica come il Libano che Hezbollah governa, direttamente o indirettamente da tempo e che non potrebbe reggere una replica del conflitto del 2006, riaffermare la sua ideologia, il leader del Partito di Dio, ha toccato i consueti registri, esibendosi in una prova oratoria caratterizzata da una retorica tanto verbosa quanto “prudente” nelle conclusioni.

Attacco agli Usa

Accanto all’«entità sionista» ha attaccato gli Stati Uniti, accusati di essere responsabili di tutti i massacri del secolo, compresi quelli dei palestinesi, e accorsi, ancora una volta a fianco di Israele indebolito dall’attacco del 7 ottobre. Per questo, annuncia Nasrallah, l’America deve essere «sanzionata»: la «resistenza islamica» in Iraq – leggasi i gruppi sciiti filoiraniani – ha attaccato le sue basi nel paese mesopotamico, così come hanno fatto gli houti yemeniti, alleati entrambi elogiati per la loro scelta.

Nasrallah è, però, consapevole di non potersela cavare citando le azioni altrui, così come del fatto che lo sguardo del mondo, di amici e nemici, è rivolto in primo luogo a lui. Tanto da dover ammettere che quanti chiedono l’ingresso in guerra di Hezbollah considerano quello che avviene al confine libanese con Israele sin troppo «moderato».

Nella classica concezione del tempo tipica dello sciismo duodecimano, circolare più che lineare, il capo del Partito di Dio smentisce quest’interpretazione che assume il volto dell’accusa politica. Ricordando come quello che accade su quel fronte apparentemente minore non ha precedenti dopo il 1948: nemmeno nel pur duro conflitto del 2006 che ha visto il Partito di Dio affrontare apertamente Israele.

Uno scontro, quello nel sud del paese dei cedri, di altro genere rispetto a quello di Gaza ma della cui asprezza sono consapevoli i combattenti e gli abitanti di quello stesso confine. Una battaglia in cui, ricorda il capo di Hezbollah, insieme a quelli delle Brigate al-Qassam e delle brigate al-Quds, oltre che civili, sono caduti «57 martiri» del movimento. Sottolineatura che mira a comunicare che Hezbollah è già schierata a fianco di Hamas.

Un fronte, rivendica Nasrallah accusato di «moderazione» da chi sperava in un massiccio intervento delle forze di Hezbollah, che ha obbligato Israele a distogliere truppe da Gaza e gli Usa a mandare una flotta davanti alle coste ovest del Mediterraneo. Decisione che il leader del Partito di Dio imputa, nella sua ricostruzione mobilitante, alla «paura» per un allargamento del conflitto provata dal nemico e dagli americani.

In ogni caso, a dimostrazione di essere sulla difensiva, Nasrallah, lancia un monito a Israele: affermando che farebbero il peggior errore nell’attaccare il Libano. Concetto, formulato specularmente, più o meno negli stessi termini, da Netanyahu alla conclusione del discorso del chierico sciita.

Mani libere

Nasrallah evoca genericamente, così da tenersi le mani libere e non dover rischiare i contraccolpi di una mancata reazione, a quali condizioni l’escalation potrebbe avvenire: per effetto dell’evoluzione della situazione a Gaza – il che può voler dire sia la dispersione della popolazione fuori dalla Striscia sia un inaccettabile status post conflitto dell’area, più che la battaglia casa per casa a Gaza City ormai circondata – o dell’atteggiamento del «nemico sionista» verso il Libano.

La conclusione del suo discorso, quasi scontata, è l’annuncio che Hezbollah mantiene aperte «tutte le opzioni», attivabili in qualsiasi momento. Classica formulazione che consente di tenere mobilitato il movimento senza precludersi eventuali vie d’uscita. Non a caso, per evitare di suscitare aspettative difficili da soddisfare, Nasrallah ricorda ai suoi seguaci, e a quanti guardano alle sue insegne, che il Partito di Dio sta conducendo «una battaglia di resistenza» e che ha ancora bisogno di tempo per assestare il «colpo di grazia» al nemico, cosa di cui il leader sciita si dice certo.

«Bisogna essere realisti!», chiosa. Lo stesso realismo che sembra escludere un intervento nel conflitto che vada oltre le modalità attuali e gli consente di evocare la guerra nella, non troppo, segreta speranza di non doverla fare, almeno nel breve termine.

Come ci si auspica anche a Teheran, dove si ritiene che, comunque, alla fine del conflitto gli equilibri della regione non saranno più gli stessi e persino i paesi firmatari degli accordi di Abramo non potranno proseguire, come nulla fosse, nelle relazioni con Israele. E forse proprio in questa parola, «realisti», termine che assume le sembianze di un ossimoro per un movimento ispirato da una teologia politica radicale come quella sciita rivoluzionaria, c’è tutto il senso del discorso di Nasrallah, sicuramente anticipato ai suoi confratelli iraniani in turbante ed elmetto.

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