Il Mar Rosso è al centro della crisi mediorientale: gli attacchi di americani e inglesi (con il supporto di Canada, Paesi Bassi, Bahrein, e Australia) contro le basi militari degli Houti sono l’ultimo capitolo di una storia di tensione che va avanti da mesi.

Gli Houthi, alleati dell’Iran, mettono a repentaglio la sicurezza della navigazione verso il Canale di Suez, e si giustificano spiegando che a loro interessa solo bloccare i trasporti verso Israele in funzione filopalestinese.

È un effetto della guerra a Gaza: senza allargare del tutto il conflitto Teheran dimostra che le conseguenze dell’invasione della Striscia possono essere gravi e durature. Si tratta anche di un segnale all’Arabia Saudita e all’Egitto, entrambi coinvolti nella stabilità di quello che loro chiamano il mar Arabico.

Tutta l’area è strategicamente rilevante: una collana di porti, piattaforme commerciali e basi militari, tenuta assieme da una serie di accordi à la carte. In passato ci si concentrava sullo Stretto che evita di circumnavigare l’Africa.

Oggi le cose sono cambiate: al di là delle guerre arabo-israeliane, da tempo quel tratto di mare è al centro di un gioco geopolitico più grande, in cui si affacciano attori vecchi e nuovi.

Corno d’Africa

È significativo il fatto che il Consiglio degli Stati del Mar Rosso e del Golfo di Aden riunisca tutti i paesi litoranei salvo Israele: Arabia Saudita, Sudan, Egitto, Gibuti, Somalia, Eritrea, Yemen e Giordania.

L’Etiopia – peraltro alle prese con lo sbocco al mare in Somaliland –  ha chiesto di entrare come osservatore ma non ha ricevuto risposta. In ogni caso il consiglio è congelato da quando lo Yemen è in stato di guerra endemica.

Nemmeno la tregua negoziata con i sauditi impedisce agli Houthi di prendersela con Israele. Tradizionalmente l’Egitto e l’Arabia Saudita, ciascuno sul suo versante, avevano la longa manus su quel mare, fatta eccezione per il porto di Gibuti che ospita diverse basi militari straniere (Francia, Usa, Giappone, Cina, Arabia Saudita, Spagna e anche Italia).

Ora lo scenario è diverso e sono apparsi altri soggetti. La metà dei sei porti commerciali sauditi è gestita da operatori emiratini. L’Eritrea ha riaperto il porto di Aden, inizialmente affidato anch’esso agli Emirati, che per un certo periodo ne hanno fatto una base militare. I russi cercano di installarsi a Port Sudan anche se la situazione caotica del Sudan, in preda alla guerra civile, per ora non li favorisce.

Anche la Turchia attende la conferma dell’accordo stipulato con il precedente regime di Khartoum per l’utilizzo del porto di Suakin poco più a sud. I porti somali sono sempre a disposizione del miglior offerente, tra cui ovviamente gli emiratini già impiantati a Berbera (in joint venture con l’Etiopia) e a Bosaso.

Cina e Iran

A parte le basi militari, a Gibuti i cinesi sono riusciti ad acquisire oltre il 20 per cento di tutta l’area portuale commerciale (estromettendo gli emiratini). Infine tramite gli Houthi, gli iraniani si sono presentati sul mare a Hodeida.

Per Teheran poter disporre di un margine di manovra sia nel Golfo Persico che nel Mar Rosso è una notevole prova di forza. Per reagire a tale proliferazione di presenze l’Egitto sta rinforzando la base militare di Berenice.

Arteria vitale del commercio mondiale (che avviene per il 95 per cento via oceani), tutto ciò che scorre tra il Canale e lo stretto di Bab el Mandeb è in allerta.

Uno dei motivi che indussero la comunità internazionale a metter in piedi la più grande operazione anti-pirateria mai organizzata dal Golfo di Aden all’Oceano Indiano occidentale (Atalanta), fu proprio la necessità di difendere i delicati equilibri del Mar Rosso da cui passa il 10 per cento del traffico cargo globale ed oltre il 40 per cento  di quello tra Asia ed Europa.

Ora tale movimento è in pericolo. Di conseguenza Stati Uniti e loro alleati stanno provando a difendere il passaggio ma sauditi ed egiziani temono che ciò possa far saltare i fragili equilibri, preferendo metodi più soft. Dal punto di vista geopolitico gli esperti chiamano “arena del mar rosso” la zona coperta dagli interessi degli Stati che afferiscono al mare: in pratica un’area vasta che dalle coste turche si spinge fino a Zanzibar e al Mozambico.

Né il Cairo né Riad sono mai riuscite ad avere il completo controllo e sono oggi costrette a negoziare alleanze ibride e a geometria variabile. Da quando la pirateria è stata ridotta a zero, le varie regioni semi-indipendenti somale hanno iniziato a sfruttare la loro posizione geografica.

La Turchia vuole fare ricerche petrolifere davanti alle coste somale, mentre l’Etiopia ha deciso di dotarsi di una marina militare (e per questo chiede un porto al Somaliland).

Ma la prudenza è d’obbligo: l’improvviso scoppio del conflitto a Gaza ha rimescolato tutte le carte e l’attuale semi-blocco del commercio navale rischia di mandare all’aria i piani e i progetti più arditi e sofisticati. 

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