Fin dal suo insediamento, la premier Meloni ha parlato di un fatidico piano Mattei con l’Africa, ma, fino ad oggi, è rimasto privo di riferimenti concreti. A ridosso della quarta Conferenza Italia-Africa prevista per domani e lunedì, il 10 gennaio scorso la Camera ha approvato il disegno di legge di conversione del decreto “recante Disposizioni urgenti per il Piano Mattei”. Nonostante il documento confermi la vaghezza del piano, è possibile però già fare alcune prime valutazioni sul processo e sui temi della Conferenza.

Per quanto riguarda il processo, il governo ha finora investito politicamente molto nel piano. Un approccio strategico e programmatico è certamente un elemento importante per la politica estera italiana, e sembrerebbe interessare anche le istituzioni africane: sono più di 20 le conferme dei capi di stato o di governo del continente che parteciperanno alla Conferenza.

Allo stesso tempo, però, il governo ha avuto un approccio fortemente accentratore e ha tenuto la cabina di regina per il piano Mattei a palazzo Chigi, con un basso coinvolgimento della Farnesina generando discontento tra i diplomatici. Inoltre, l’accentramento ha portato con sé il mancato coinvolgimento delle realtà non istituzionali – come Ong e diaspore – che alla Conferenza non saranno di fatto presenti.

La legge approvata prevede alcuni rappresentanti non governativi nella cabina di regia, ma rischia di essere una presenza del tutto simbolica per come è stato impostato il lavoro. La legge inoltre prevede in modo poco realistico che gli esperti saranno coinvolti nel Piano a titolo gratuito, completando così un quadro accentrato sulle istituzioni politiche e in particolare sulla presidenza del Consiglio.

Inoltre, anche se saranno presenti i vertici Ue al Summit, per ora la dimensione europea è del tutto marginale nei discorsi e nei documenti relativi al piano. Difficile pensare che il piano Mattei possa avere un peso senza sinergie con l’Ue, e in particolare con il Global Gateway, la strategia europea che mira a ridurre il divario globale degli investimenti: la prima iniziativa è stata infatti il pacchetto di investimenti Africa-Europa, con circa 150 miliardi di euro di investimenti destinati a rafforzare la cooperazione con i partner africani.

Un approccio nazionalista al rapporto con l’Africa non potrebbe che avere effetti retorici se non nefasti: se da una parte ci troviamo in un momento storico in cui l’Italia, rispetto ad altri stati membri come la Francia, ha più margine di manovra in alcune regioni dell’Africa – come per esempio l’Etiopia e il Sahel – dall’altro non ha ancora i numeri– come per esempio il personale diplomatico – per contare veramente nel Continente. Per farlo ha bisogno dell’Europa.

L’agenda

Venendo all’Agenda del Summit, i punti di discussione saranno energia, migrazione irregolare e lotta al terrorismo, cultura e educazione, e infine la sicurezza alimentare. Non entrando nel merito sui temi relativi all’energia e all’immigrazione – temi che sappiamo essere cari al nostro governo - il fatto che il piano Mattei voglia affrontare la crisi alimentare in Africa è sicuramente un buon segnale.

I numeri di oggi sono allarmanti: secondo un rapporto delle Nazioni Unite e dell’Unione Africana pubblicato lo scorso dicembre, oggi quasi 282 milioni di persone (circa il 20 per cento della popolazione africana) sono denutrite, con un aumento di 57 milioni rispetto all’inizio della pandemia. Qualsiasi azione nel continente non può quindi prescindere da questi dati, ma se si vuole avere un impatto sulla crisi alimentare bisogna coniugare il discorso del cambiamento climatico e della guerra russa-ucraina – come invece sembra volersi concentrare la conferenza – con quello delle cause strutturali. Il Sahel può essere un buon esempio per capirlo: oltre alla siccità, desertificazione e inondazione, le cause strutturali dell’insicurezza alimentare della regione sono i conflitti e l’inflazione.

Se non si affrontano entrambe, è difficile che i numeri cambino. In una regione i cui le tensioni inter-comunitarie e il terrorismo non hanno fatto che espandersi, i conflitti armati hanno distrutto interi sistemi agropastorali e alimentari, mettendo a repentaglio le prospettive delle generazioni future. Succede anche perché in Burkina Faso, Mali e Niger, la fame dei civili è usata come metodo di guerra.

I gruppi armati non statali prendono sempre più di mira le risorse e le fonti di reddito della popolazione, saccheggiando e distruggendo i raccolti, rubando il bestiame ed estorcendo denaro a comunità già vulnerabili. Non solo: i conflitti, come dimostra il Burkina Faso, provocano spostamenti di milioni di persone, fenomeno che a sua volta provoca la chiusura di centri sanitari, scuole e mercati.

Ma soprattutto, di fronte all’insicurezza dilagante, i governi locali danno priorità di bilancio alle loro forze armate: in 10 anni, secondo il SIPRI, in Mali le spese per la sicurezza sono aumentate del 339 per centro, in Niger del 288 per cento e in Burkina Faso del 238 per cento.

Cosa che a sua volta spinge i governi a ridurre le risorse dedicate allo stoccaggio di scorte alimentari pubbliche, in particolare di cereali. Tali misure, coniugate alla persistenza di barriere doganali e contingenze internazionali come l’aumento dei prezzi della petrolio, non fanno altro che contribuire all’aumento dei prezzi del cibo.

Dinamiche già in atto

Per questo, sebbene la guerra in Ucraina sia stata spesso descritta come causa dell’insicurezza alimentare in Africa, non è stata altro che un fattore scatenante di una dinamica che era già in atto: già nel 2021, un documento dell’OCHA prevedeva nel Sahel un aumento di oltre il 40 per cento del numero di persone che avrebbero dovuto affrontare una grave insicurezza alimentare nel 2022 a causa di cambiamento climatico, conflitti e inflazione.

Se quindi l’Italia vuole mettere al centro della sua azione per l’Africa la sicurezza alimentare, lo deve fare attraverso un approccio integrato che preveda la mitigazione dei conflitti e misure che riducano l’inflazione sui prezzi del cibo.

La prima azione, in questo senso, potrebbe riguardare il Niger tentando di far pressione, a livello europeo, per togliere le sanzioni imposte dall’Ecowas – l’organizzazione economica regionale – dopo il colpo di Stato dello scorso luglio: sempre secondo un rapporto delle Nazioni Unite pubblicato ad agosto, le sanzioni hanno avuto un impatto devastante sulla vita delle persone e, in particolare, sulla loro sicurezza alimentare.

Il governo, quindi, riuscirà a raccogliere risultati tangibili se avrà l’intelligenza di vedere le cause strutturali di problemi complessi, evitando di mettere al centro dell’agenda energia e migrazione irregolare e lasciando gli altri temi come foglia di fico.

E se avrà la lungimiranza di non pensare di fare da solo in un’ottica nazionalista, un approccio sicuramente poco utile all’Africa, ma anche all’Italia.

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