«Se l’obiettivo è servire il popolo africano, qualsiasi progetto di sviluppo è benvenuto e c’è un ampio spazio per la cooperazione. Purché sia paritaria». Li Anshan, presidente onorario della Società cinese di studi storici africani, nonché consulente della leadership cinese dagli anni Novanta, commenta a Domani il piano Mattei e la strategia di Pechino per l’Africa.

Secondo un recente studio della Fudan University, nel 2023 l’Africa subsahariana è diventata la prima destinazione degli investimenti cinesi, superando il Medio Oriente. A cosa attribuisce il sorpasso?

Penso che la guerra in Medio Oriente spieghi in buona parte il maggiore interesse cinese per l’Africa.

Negli ultimi anni, il problema del debito dei paesi emergenti ha spinto Pechino a privilegiare progetti “piccoli e belli”. È la fine delle grandi opere infrastrutturali del passato?

I dati in merito sono molto contraddittori. Tuttavia, va riconosciuto che il Covid-19 è stato un grosso problema per il settore delle costruzioni. In futuro penso che la tipologia dei progetti debba essere scelta sulla base dei reali bisogni degli africani, non degli interessi della Cina.

Peraltro in Africa la Cina in realtà sta continuando a finanziare collegamenti ferroviari. Spicca un piano per la ristrutturazione della Tazara, la ferrovia che costruì Mao in Zambia e Tanzania.

I grandi progetti sostenuti dall’Urss durante il primo periodo della Repubblica Popolare Cinese hanno aiutato molto il nostro paese. Allo stesso modo, in passato la Tazara ha aiutato moltissimo i due Paesi africani coinvolti. E tutt’oggi si dimostra ancora utile per lo sviluppo economico e sociale locale. È interessante che l’occidente si stia affrettando a investire nelle ferrovie proprio ora, solo dopo che la Cina lo ha fatto per decenni.

Recentemente è stato raggiunto un accordo per la sofferta ristrutturazione del debito dello Zambia, il primo paese ad aver dichiarato default dopo l’inizio del Covid. È un segnale incoraggiante per gli altri mutuatari africani?

In realtà la Cina è stata il primo creditore ufficiale internazionale ad attuare misure di riduzione del debito allo Zambia. Ma il problema richiede sforzi congiunti da parte di tutte le parti interessate per trovare la soluzione migliore. Nel caso dello Zambia, i creditori commerciali e le istituzioni finanziarie multilaterali – soprattutto occidentali – rappresentano il 70 per cento del debito estero. Lo stesso principio vale anche per altri paesi.

Quali sono i settori su cui la Cina vuole puntare di più per rendere il proprio modello di business in Africa più “sostenibile”?

Per essere più sostenibile un progetto deve essere più commercialmente valido. Se così non è, deve quantomeno avere un impatto maggiore, incidendo positivamente sulla comunità locale. La storia e l’esperienza cinese dimostrano che per essere sostenibile il modello deve essere a lungo termine, adattabile in modo dinamico, e vantaggioso per la vita di tutte le persone, non solo degli imprenditori o delle aziende.

Dopo tre decenni di basso profilo, la Cina sembra cercare un maggior coinvolgimento nella sicurezza globale, proponendo soluzioni alle varie crisi. Nel 2022 la Cina ha organizzato la prima conferenza di pace per il Corno d’Africa. Eppure in concreto Pechino non ha avuto alcun ruolo nella “pacificazione” del Tigray.

Come studioso impegnato da molto tempo nelle relazioni Cina-Africa, credo in un principio: sono gli africani a dover prendere decisioni nelle questioni che li riguardano direttamente. Spero che la diplomazia cinese tenga sempre presente il principio della non ingerenza nella sovranità degli altri paesi, anche nelle crisi del Sahel.

Pechino sta però promuovendo la Global Security Initiative (Gsi). Se queste sono le premesse, a cosa può servire?

Lo scopo della Gsi è quello di rispondere all’urgente necessità di fornire nuove indicazioni per eliminare le cause profonde dei conflitti internazionali. Anche la Belt and Road promuovendo la cooperazione internazionale contribuisce alla pace. Penso che sappiamo tutti che gli Stati Uniti hanno creato molti problemi mettendo a rischio la sicurezza mondiale. Molte persone pensano che il progetto americano Build Back Better non abbia sostanza e sia stato lanciato solo per contrastare la Belt and Road cinese.

Dopo Stati Uniti e Unione Europea, recentemente anche l’Italia ha annunciato un proprio piano per l’Africa. Come vede la Cina queste iniziative occidentali? C’è spazio per una cooperazione?

Se l’obiettivo è servire il popolo africano, qualsiasi progetto di sviluppo è benvenuto e c’è un ampio spazio per la cooperazione. Ma in quali campi specifici dipende dalla volontà dei paesi partner. L’Europa ad esempio è leader negli standard Esg e nella governance dei dati; entrambe queste capacità darebbero grande valore ai progetti su cui sta lavorando la Cina.

Quando si parla di cooperazione trilaterale, però, la Cina non può considerare solo il proprio vantaggio. La cooperazione strategica può essere portata avanti in molti modi. Abbiamo avviato diversi progetti con la Francia, per esempio nel porto di Lekki (in Nigeria), oltre che nei settori manifatturiero e ingegneristico. L’importante è che la partnership sia paritaria. Va tuttavia notato come il piano di investimenti dell’Italia abbia ricevuto un’accoglienza fredda in Africa, dove è stato definito «neocoloniale».

Uno dei temi più dibattuti in Italia è quello dell’immigrazione proveniente dall’Africa. Cosa farebbe Pechino al posto del governo italiano?

La Cina ha un problema simile per quanto riguarda la migrazione interna tra città e campagna e alcuni immigrati stranieri provenienti dai paesi vicini. Man mano che i paesi si sviluppano, e il tasso di fertilità diminuisce, si trovano ad affrontare la sfida della contrazione della popolazione. L’immigrazione, se organizzata adeguatamente, potrebbe mitigare la pressione apportando le competenze e la manodopera necessarie. Ma è difficile generalizzare: ogni paese deve trovare soluzioni proprie ai propri problemi.

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